
La colonna sonora conta, non c’è che dire. Fa spettacolo, aggregazione, esprime passione, senso di appartenenza. Un inno ci sta bene sempre, come insegna il cavalier Silvio Berlusconi. Ma non è delle abitudini della destra che vogliamo parlare, se n’è parlato e se ne parla sempre troppo. Prendiamo in considerazione per una volta le abitudini e le velleità musicali del Partito Democratico. Da quando la figura del segretario Matteo Renzi ha “infettato” l’animo duro e puro dell’ex Partito Comunista Italiano non è più la stessa cosa. In molti parlano di crisi di identità. I difensori del vecchio mondo, del secolo passato, gli ortodossi, gli intellettuali, i radical chic, i reazionari, quelli fedeli alla linea soffrono. Non sono in sintonia con i nuovi accordi.
“Questo è rumore non è musica”. Dov’è la banda di Paese e la sempre cara casa del popolo. Dov’è la genuinità dei cori durante i picchetti di fronte alle fabbriche o nei licei occupati. Non si riconoscono nei canti classicamente pop che animano da qualche tempo i lavori dello schieramento progressista. Il tempo dei partigiani rossi in cima ai monti è finito. E molti si svegliano da un sonno durato quasi cinquant’anni: svelato il miracolo dell’eterna giovinezza.
E ne sono sconvolti. Niente più “Bella Ciao”, niente più vecchio caro inno dell’Internazionale socialista. Basta Guccini, De Gregori, De André, Iannacci, Gaber, Bertoli, Intillimani alle Feste dell’Unità. “Che sofferenza”, sembrerebbe affermare il presidente dell’Anpi, mentre anche l’ultimo dei renziani si affretta a suggerire un nuovo slogan per la Leopolda del prossimo anno: “Si cambia musica”. E non è una questione di rottamazione, ostentazione di giovinezza, pressapochismo o vicinanza alle nuove generazioni.
È una decisione unanime. Se si vuole vincere, bisogna essere popolari è il motto che si rincorre nella segreteria di via del Nazareno. Pop. Il vento del cambiamento lo intercetta per primo Walter Veltroni, in realtà, quando la campagna elettorale del presidente americano Barack Obama è in pieno svolgimento. È il 2007. Va negli States e vede esibirsi il meglio delle icone della musica globale. Il “Boss” Bruce Springsteen, Stevie Wonder, James Taylor, Neil Young, Bon Jovi, Jay-Z con Beyoncé. Che illuminazione. “Se facciamo così stravinciamo”, pensa. Ma gli va male e i giri armonici di Mariano Apicella ingoiano tutti. Di nuovo. Poi arriva Pier Luigi Bersani che diffonde in lungo e in largo i testi del Blasco, Vasco Rossi “Un senso” e “Cambierà” di Neffa per fare opposizione al Governo Berlusconi.
Ma il cambiamento lo cavalca lui, il rottamatore Matteo Renzi ha buon orecchio e con grande freschezza sfodera, per scalare posizioni nel partito, tutto il meglio della sua playlist di iTunes. Arrivano i Muse a cui il giovane fiorentino farebbe scrivere un nuovo inno per il Pd. Sono la sua band preferita. Jovanotti con il “Il più grande spettacolo dopo il Bing Bang” che chiude puntualmente tutti i comizi. I Fun con “We are young”, il deejay dance Fat Boy Slim con “Right here, right now”. Fino ai Negrita di oggi, che consacrano la rivoluzione permanente del rottamatore. Il pezzo scelto è “La tua canzone”. Che a tutti i nostalgici degli inni del Novecento si sussurri: “… Resta ribelle non ti buttare via!”.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:49