Ascensore sociale bloccato: è povertà

“Maledetti operai, stramaledetti contadini… le classi povere rappresentano una cancrena per l’intera Nazione, tra loro s’annida il germe anarchico”, andava borbottando a vanvera il vecchio generale, appena che il suo attendente aveva soltanto accennato ai titoli dei principali quotidiani. Ben si comprende come parole e idee di Fiorenzo Bava Beccaris fossero poco gradite (anzi indigeste) per Benito Mussolini, che gran parte del suo consenso riponeva proprio nel popolo: nell’aver portato al fascismo i suoi compagni figli del sindacalismo socialista rivoluzionario.

“Ma eccellenza, il generale è tra i pochi senatori del Regno che, dalla prima ora , si sono dichiarati sia interventisti nella guerra che favorevoli nel ’22 al fascismo: Beccaris si recò personalmente dal Capo dello Stato per chiedere che le venisse affidato il governo d'Italia”, rammenta qualche conservatore torinese al Cavalier Mussolini, che col vecchio generale non vuole proprio arrazzare. Al punto che, per prendere le distanze dal generale Bava Beccaris, Mussolini colse al volo il caso di Sacco e Vanzetti, comiziando a favore di quella classe operaia e contadina che il militare piemontese vedeva bene solo da morta. Soprattutto scuotendo l’opinione pubblica italiana di allora circa un sopruso ai danni di “due onesti lavoratori italiani”. Così il governo fascista, contravvenendo alle raccomandazioni del vecchio generale, si mosse a sostegno dei due connazionali, generando non poca soddisfazione tra la compagine socialista e rivoluzionaria.

Mussolini ritenne che “il tribunale statunitense è pregiudizialmente prevenuto nel giudicare Sacco e Vanzetti”. Così dal ’23, fino al giorno dell’esecuzione della condanna a morte (nel 1927), fu continuo l’andirivieni presso le varie autorità statunitensi di ambasciatori, consoli, funzionari e tantissime personalità italiane per ottenere una revisione del processo e, forse, la grazia per i due italiani. “Abbiamo gridato troppo presto vittoria, quel romagnolo è pur sempre figlio di fabbro socialista, sindacalista, anarchico…”, commentavano senza mezzi termini i vari tirapiedi di Bava Beccaris. Mussolini faceva finta di non raccogliere. Ma l’8 aprile del 1924, giorno della morte del generale 93enne, dal governo italiano partiva ulteriore sprono alla difesa di Sacco e Vanzetti, sostenendo che “sarà ancor più ferrea la volontà di riportare in patria i nostri connazionali”.

Tra le “prove d’anarchia” che produsse la giustizia Usa contro Vanzetti ci furono i libri trovati nella sua abitazione dopo una sommaria perquisizione, opere di Marx come di Hugo, Gorkij, Tolstoj, Zola. “Tutta letteratura in chiara difesa della classe operaia”, faceva notare il pubblico ministero di Boston, quasi che una perversa affinità elettiva lo avesse inconsciamente legato al vecchio Beccaris morente nella lontana Italia. “Mai, vivendo l’intera esistenza, avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione fra gli uomini”, esclamava Bartolomeo Vanzetti alla giuria che lo stava condannando a morte.

E nonostante cinquant’anni dopo la loro morte (esattamente il 23 agosto 1977) il governatore del Massachusetts (Michael Dukakis) abbia ufficialmente riconosciuto “il processo e la condanna sono stati frutto d’un errore giudiziario e riabilito completamente la memoria di Sacco e Vanzetti”, i due poveri italiani vengono ancora citati sui libri italiani di storia come “anarchici” e non come operai italiani emigrati in Usa solo per lavorare.

Dove finisca il pressappochismo e dove inizi la malafede è difficile da stabilire. Certo è che oggi ci si ritrova costretti a rivangare queste storie perché, proprio in Italia, sta nuovamente montando una sorta d’odio (e questo davvero trasversale a centrodestra, centrosinistra e centro-centro) verso disoccupati, sottoccupati, precari, poveri, indigenti. Quasi che rappresentino “la cancrena della nazione”, parafrasando il senatore Bava Beccaris (precisiamo senatore del Regno, non vorremmo che qualche politicolzolo dell’ultima ora lo pensasse in carica). È comunque evidente che, dal governo Monti fino all’attuale Letta, si sia fortificata nel Paese la necessità di erigere steccati d’esclusione, utili al non recupero dei disoccupati nei comparti produttivi.

Il senso d’esclusione è così forte che, i meno indigenti tra gli esclusi, si fingono occupati pur di evitare l’emarginazione sociale: fingono di lavorare, di guadagnare, d’avere impegni, ma indagini più profonde rivelano che si tratta di commedie montate per scongiurare si venga riposti tra gli esclusi. La responsabilità politica sulla nascita di virulenti percorsi d’esclusione è tutta di matrice politica. Siamo più precisi, la malapolitica d’esclusione propagandata dall’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero, a cui seguiva in più dicasteri la criminalizzazione dei disoccupati.

Non dimentichiamo che qualcuno, durante il governo Monti, ebbe a sentenziare che “nessuno sconto verrà fatto nelle piazze alle proteste di disoccupati, sottoccupati e precari”, quasi che le categorie rappresentassero di per sé una turbativa dell’ordine pubblico. Il male è stato fatto, con lui il passo indietro degno di Bava Beccaris: negli ultimi mesi abbiamo sempre più spesso assistito al fermo, da parte delle forze di polizia, d’ignari ed inermi passanti, solo perché non vestiti elegantemente o adusi a pedalare piuttosto che automuniti. La risposta d’un agente s’è dimostrata magniloquente “tra chi gira per le strade di Roma a piedi o in bici e vestito in maniera approssimativa ci sono molti anarchici, No-Tav, disubbidienti… difficilmente manifesta in piazza chi si muove in auto elegante o in Smart”.

Secondo i poliziotti si tratterebbe di “prevenzione”: è evidente che i pubblici funzionari siano prevenuti almeno quanto i loro simili d’oltre Oceano che processarono e condannarono Sacco e Vanzetti. Non ultima è l’opera di dissuasione verso i disoccupati che, solo a parole, vengono spronati a cercarsi occupazioni anche precarie. Di fatto le aziende oggi predispongono esami psicologici, utili a comprendere se l’eventuale assunto possa dimostrarsi non remissivo (forse violento) in caso di licenziamento o di non pagamento delle prestazioni d’opera: anche il minimo dubbio sulla “non remissività” e l’opportunità sfuma. Fingetevi scemi, rassegnati, remissivi… diversamente verrete ritenuti non idonei a sortire dai percorsi d’esclusione. È evidente quanto la classe politica debba far tesoro del passato.

Infatti, se le crisi sono tornate a durate pre-industriali (vedasi lunghezza delle carestie prima e dopo la guerra dei Cent’anni ed anche prima e dopo quella dei Trent’anni) altrettanto aumentano le probabilità di rivolte legate alla sopravvivenza, ai bisogni primari. Ma non c’era stato detto che le economie moderne, nella loro velocissima ciclicità, avrebbero ridotto al minimo le crisi (carestie)? Illusioni, fantasie degne degli utopisti che discettano della nostra Europa dimenticando che la “Grande Carestia” del 1300 si gonfiò come l’attuale crisi, quando i ricchi signori della Lorena gonfiarono il prezzo della farina fino al 320%, tirando a ruota in carestia tutto il Continente: il pane divenne non più acquistabile per i popolani francesi e tedeschi, spagnoli e del Nord Italia, boemi ed austriaci…

La popolazione cominciò a raccogliere radici, piante, erbe, noci, bacche… dovendo anche fronteggiare i divieti di legnatico e raccogliticcio imposti dai nobili. L’attuale Europa è tanto cibernetica ma somaticamente ricorda la sua antenata. Poi c’è l’Italia dei “tecnici-moderati”, troppo distanti dal popolo per comprendere che in politica non ci sono comparti stagni, e prima o poi necessita rendere conto (anche solo alla storia) di scelte anacronistiche. Del resto chi opera l’inalienabilità del posto statale, e la caducità di quello privato, rischia di scaraventare il Paese in una lunga e distruttiva guerriglia civile.

Letta lo sa e Saccomanni lo inizia a comprendere, il problema è farlo capire ai loro amici e referenti. Certo, fino a sessant’anni fa nessuno pensava a suicidarsi per l’intervenuta povertà: i poveri o quasi (diciamo con decoro) erano l’80% della popolazione. Secondo qualche sociologo, per le generazioni di domani sarà facile convivere con la povertà quanto lo era per gli italiani di cento anni fa: magra consolazione.

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 11:07