
A Olli Renh e compari non importa che le tasse finiranno col mandare a morte sia l'economia che la democrazia italiana. La bocciatura della nostra manovra di bilancio, con la scusa del debito italiano troppo alto, sarebbe comunque arrivata, anche se avessimo fatto meglio i compitini a casa. L’obiettivo delle economie trainanti europee è scongiurare ogni tipo d’investimento in Italia, evitando innanzitutto che le manovre (ex finanziarie) aprano ad eventuali maggiori flessibilità sugli investimenti.
La Commissione Europea usa il rischio sforamento del 3% del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo per stroncare ogni aiuto esterno verso il sistema italiano: così vengono allontanate tutte le imprese straniere che potrebbero aprire succursali nello Stivale, o anche capitali stranieri che vorrebbero acquisire pacchetti italiani. La strategia della Commissione Europea (per essere precisi di Olli Rehn e compari) fa il paio con le iniziative della finanza internazionale tese a valutare zero Alitalia, uccidere Telecom Italia e gettare discredito in genere sul capitalismo tricolore. La “sentenza” della Commissione Ue è anche contraddittoria quando dice che “la bozza della legge di stabilità per il 2014 non rispetta il Patto di Stabilità e crescita. In particolare il parametro per la riduzione del debito nel 2014 non è rispettato”.
Infatti l’indebitamento serve proprio per finanziare la ripresa, la crescita: se non possiamo avere maggiori quantitativi di euro (non possiamo stampare) né si possono creare debiti (finanziamenti) per produrre come sarà mai possibile uscire dalla crisi? Le raccomandazioni di Bruxelles vanno ovviamente interpretate da chi ci governa (ovvero chi svolge il ruolo d’intermediario tra noi e l’Ue) e dicono che le risorse sarebbero tutte nelle tasche e nei patrimoni degli italiani: ovvero le buone leggi (sempre secondo Olli e compari) dovrebbero costringere l’italiano a vendersi casa e a non fare più risparmi, puntando tutto sul mercato. Olli Rehn è chiaro, e dice a Letta che o aumenta le tasse o, con una spending review che riguardi la pubblica amministrazione nelle sue articolazioni a livello centrale e locale, licenzia circa un milione di dipendenti.
Se l’Italia non imbocca una delle due strade o tutte e due insieme, nel 2014 l’Italia non potrà avvalersi della clausola che esclude la spesa per investimenti dal calcolo del rapporto tra debito e Pil. L’Ue pretende una spending review secca e seria, e non s’accontenta d’una riforma del sistema fiscale spalmata nel quinquennio, e nemmeno di privatizzazioni fatte col contributo della “Cassa depositi e prestiti” e, soprattutto, non crede che possa avvenire il rientro in Italia dei capitali mandati all’estero da imprenditori grandi e piccini. I Paesi stranieri che oggi godono delle ricchezze dell’impresa italiana non sono sotto osservazione dell’Ue, la Commissione fotografa solo ed esclusivamente lo stato dell’arte attuale, ovvero patrimoni immobiliari privati e pubblici e depositi bancari di persone fisiche e giuridiche nonché di enti e società pubbliche e partecipate: per la Commessione i capitali all’estero non rientrano nel computo delle disponibilità italiane.
La bocciatura è anche funzionale a mettere più d’un bastone tra le ruote al venturo semestre italiano in Ue. Di fatto è interesse dei potentati economici europei stringere l’Italia verso il “Two-Pack”, ovvero la richiesta da parte della Commissione d’un piano ferreo sulle inosservanze, e dopodiché la palla degli obblighi di bilancio potrebbe anche veder sbarcare la Troika a Roma. La via più breve, che taglierebbe la testa al toro, levando d’impaccio politica ed elettorato stremato, sarebbe dichiarare fallita l’Italia: ogni bene registrato su territorio italiano (sia pubblico che privato) verrebbe avocato da un tribunale europeo alla procedura fallimentare. Via che di soppiatto stanno già percorrendo attraverso il pulviscolo fallimentare che abbonda nei tribunali italiani: il record di fallimenti è ormai detenuto nell’Ue dal Belpaese, più di 10mila fallimenti in meno di otto mesi.
La Lombardia svetta nello Stivale come regione con più imprese in procedura fallimentare. Industrie di servizi, manifatturiere ed edili (secondo i dati Cerved, società specializzata nell'analisi delle imprese e nella valutazione del rischio di credito) sommerebbero la metà dei fallimenti italiani. Secondo il Cerved, siamo ormai al livello “massimo osservato da più di un decennio nel periodo gennaio-settembre”. A portare i libri contabili dal giudice sono le società di capitale (+12 per cento), le società di persone (+10), e +11 per le altre forme giuridiche. E, ironia della sorte, dopo la Lombardia (con 2.250 fallimenti nei primi nove mesi) anche Emilia Romagna e Veneto registrano un +19 per cento di fallimenti: sta pian pianino fallendo l’intera impresa italiana. Ed il ministro Saccomanni dice che lo stato per salvarsi dovrebbe non dare corso ai pagamenti delle pubbliche amministrazioni (ovvero i debiti contratti con imprese private e prestatori d’opera) e solo badare ad incassare dai cittadini.
Quindi spogliare i contribuenti e vestire lo stato. L’Italia tutta è in liquidazione coatta amministrativa (passateci la battuta), e lo si nota dall’incremento delle liquidazioni volontarie delle aziende private: nel terzo trimestre 2013 hanno avviato procedure di liquidazione volontaria circa 14mila aziende (e senza precedenti procedure, quindi aziende sane). Oltre 50mila le liquidazioni nei primi nove mesi dell’anno. Secondo alcuni osservatori la causa non sarebbe imputabile solo alla crisi economica, ma anche alla legislazione in vigore: da un lato è favorito chi chiude perché non paga i crediti, dall’altro c’è il timore che sulle imprese pesino tutti i costi dello stato italiano e della permanenza nell’euro. L’Italia è una barca che affonda, ma chi ci governa (gli intermediari con l’Ue di Olli Rehn) non hanno meriti tali da poter dare del topo a chi chiude bottega.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:46