
Gran parte dei burocrati italiani ripetono pappagallescamente che “necessita rispettare il rapporto del tre per cento tra debito e Pil, anzi che negli anni a venire, per una maggiore integrazione europea, si passerà al due e mezzo, poi al due e giù a finire”. È evidente che la dirigenza di Stato (professori d’economia compresi) non capisca un bel fico secco d’economia o, forse, con tanta disonestà intellettuale appoggi la messa a morte dell’Italia. “Andrebbero arrestati e processati per alto tradimento” ci suggerisce un amico. Non ha poi tutti i torti. Basti dire com’è saltato fuori il parametro del tre per cento: Olli Rehn sedeva a colazione con due amici consulenti di banche d’affari e, meditando su cosa si potesse fare in questa Ue, pensò d’inventarsi un metodo per imbrigliare ben benino la fantasia mediterranea. Il modo poco burocratico che italiani, greci, spagnoli, portoghesi e ciprioti hanno di fare soldi.
Così salto fuori il progetto di vincolare ogni singolo indebitamento nazionale al prodotto interno lordo: ma vada bene legare, cioè mantenere il rapporto tra l’otto e il dodici per cento, ma piegarlo al tre percento ha l’evidente finalità di desertificare ogni investimento, permettendo alle economie centro e nord europee di non subire la concorrenza dei fantasiosi mediterranei. Così Olli Rehn e compari, tra un bicchierino e uno stuzzichino, iniziarono a dare i numeri: “Piegateli sotto il due per cento”, diceva il più severo del trio, “ma falli vivacchiare sopra il tre, verso il quattro”, obiettava il più accomodante. Olli si portava la mano destra al mento, ci rifletteva un po’ su e poi eureka… “li leghiamo tutti al tre per cento, e non se ne parla più”.
Il giorno seguente il furbissimo Olli, con faccetta da genietto alla Henry Potter attempato, fece filtrare la trovata del tre per centro sui tavoli della poco umana burocrazia Ue: la stessa che frequenta solo ambasciatori e diplomatici, professori universitari e alte dirigenze ministeriali, politici ricchi e progressisti… evitando accuratamente imprenditori, creativi e sportivi, cioè gente che potrebbe minare la loro rigida disciplina europeista da primi della classe. La trovata del tre per cento piace agli gnomi bianchicci: nel loro sadismo latente (spesso evidente) già avvertono l’ebbrezza d’infliggere sofferenze ai loro inferiori (passateci il “fantozzismo”) mediterranei.
Quando il rapporto tra debito e Pil assurgeva a dogma europeo inconfutabile, subito i fedeli della religione europeista ci spiegavano che le banche dovevano solo raccogliere i soldi in Italia per poi investirli in Paesi più virtuosi, che gli italiani avrebbero dovuto introiettare la politica del rigore iniziando a vestire come i tedeschi dell’ex Germania Est, a nutrirsi come i polacchi degli anni ’80, a centellinare i mezzi di trasporto come s’addice ad un Paese povero e indebitato. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Le imprese si sono dimezzate, i consumi sono tornati ai valori del biennio ’48-’50, il numero dei senzatetto s’è triplicato, i poveri sono quasi 10 milioni, i disoccupati 7 milioni e i sottoccupati riuniscono metà della popolazione in età da lavoro.
L’Italia crepa, ma il governo Letta ci assicura che Olli Rehn è soddisfatto, che ci siamo saputi stringere nel tre per cento e che tra un paio d’anni saremo maturi per ridurci nel due. L’Europa (i burocrati germanofili) ci dice che un Paese virtuoso non s’indebita per finanziare l’impresa, e che le iniziative dovrebbero trovare la forza di autofinanziarsi. Ma se le banche non fanno credito e lo Stato non aiuta chi può mai evitare che un Paese regredisca? Gli amici di Olli sostengono che in Italia la qualità della vita sarebbe troppo alta, che un corposo taglio allo stato sociale ci farebbe tornare la voglia di lavorare. È evidente che i sacerdoti del tre per cento abbiano tanta nostalgia di quell’Italia costretta a migrare, a lavorare nelle miniere del Belgio come nelle fabbriche tedesche.
Ma questa è la fotografia de “I Magliari” di Francesco Rosi, che ritraeva l’italiano degli anni ’50 costretto ad arrangiarsi tra Hannover, Amsterdam e Amburgo facendo gli stessi lavori che oggi da noi svolgono i clandestini. Evidentemente Olli e bella compagnia provano un forte rimpianto per quei tempi, o forse considerano ancora l’italiano un europeo di serie B. Non dimentichiamo che, nell’ambito della Commissione Europea, Rehn si è dichiarato a favore dell’adesione turca all’Unione proponendo, tuttavia, l’introduzione di restrizioni permanenti sul libero movimento dei lavoratori turchi “nell'eventualità che, conseguentemente all’accesso della Turchia, si verifichino seri squilibri nel mercato del lavoro comunitario”.
Il suo scetticismo verso i lavoratori mediterranei è storico, fin dai tempi del suo dottorato all’Università di Oxford, quando affrontava il tema “Corporativismo e competitività industriale negli Stati europei minori”, non poteva esimersi dal riconoscere il primato del lavoro delle nazioni centro e nord europee. L’uscita dell’Italia dall’euro sarebbe a conti fatti l’unica soluzione al non morire, perché il parametro del tre per cento finirà col ridurci come l’Albania prima del 1990. Lo hanno intuito la maggior parte degli emigrati albanesi, bulgari, romeni e ucraini, che oggi fanno ritorno nei loro Paesi d’origine per impiantare attività d’impresa ormai impossibili sul suolo italiano.
Uscire dall’euro sarebbe facile, dovremmo garantire che non torneremmo alla vecchia Lira, bensì alla “Lira pesante”: ovvero 10mila lire equivarrebbero al vecchio milione, e agli odierni 5mila euro. L’euro rimarrebbe in vigore per le transazioni internazionali, e circolerebbe in Italia con regolare corso insieme alla nuova Lira. Del resto la “Lira pesante” non è mai entrata in circolazione, ma venne proposta da Bettino Craxi a Carlo Azeglio Ciampi (allora governatore della Banca d’Italia) nel 1986: perché l’idea di fondo di Craxi era quella di riportare il valore della moneta italiana a ordini di grandezza vicini alle valute straniere che circolavano nell’Europa degli anni ’80 (cioè Marco e Franco). La proposta era di sostituire la Lira italiana con la nuova Lira pesante, dove il cambio sarebbe stato di una Lira pesante per mille vecchie Lire. Furono anche create piccole quantità di Lire pesanti, in banconote da una, due, cinque e dieci lire.
Per motivi tecnici (soprattutto politici), il progetto non venne mai portato a termine. La Lira pesante non entrò mai in circolazione, ma oggi subiamo la rigidità dell’euro. Se riuscissimo ad uscire da questo gioco europeo, ristabilendo la virtuosa oscillazione che era della Lira, nel primo anno manterremmo il rapporto una lira pesante equivalente a cinquanta centesimi. Poi pian piano inizieremmo a svalutare e stampare carta moneta, e senza che gli amici di Olli Rehn possano impedircelo. Si darebbe nuovamente ossigeno ad impresa ed economia. Al pari di come stanno facendo l’America di Obama o il Giappone del conservatore nazionalista Shinzo Abe: il Giappone gode d’un rapporto tra debito e Pil del dieci per cento. Shinzo Abe ha dato ordine di stampare moneta per risollevare l’industria pesante, e ha dimostrato d’aver ragione. Negli Usa il rapporto tra debito e Pil è il più alto dal 1929, mentre in Cina e Russia si finanziano miriadi d’iniziative stampando yuan e rubli. Tutti reagiscono alla crisi, mentre la volontà dei burocrati europei si conferma farci morire d’inedia.
Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 11:22