
Commemorando Guglielmo Reiss Romoli, l’uomo che per quindici anni governò i telefoni italiani, morto nel 1961, Luigi Einaudi scrisse sul Corriere della Sera considerazioni che, come sempre gli accadeva, assumevano un valore considerabile molto oltre la circostanza. Ricordò che “le cifre statistiche avrebbero detto che Reiss Romoli era un grande amministratore della cosa pubblica, uno dei pochi taciturni autori di quello che si chiama “miracolo italiano”, miracolo che da sé non accade, se non ci sono gli uomini, grandi o piccoli, i quali lo fanno capitare”.
Benché “non avesse fatto in tempo a provvedersi di diplomi di laurea, epperciò i suoi impiegati, i quali lo rispettavano perché rigido e lo amavano perché giusto, indirizzavano a lui la parola chiamandolo direttore”, Reiss Romoli “era inaccessibile alle pretese ingiuste, alle esigenze economicamente scorrette, ai favori di ogni specie: non tollerava di ricevere ordini da chi sapeva non fosse degno di darli. Ma dolorava dentro di sé per il fatto che altri non fosse al par di lui contrario al male; e il cuore suo si struggeva in silenzio per le calunnie e le ingiurie dei versipelle pennivendoli”.
Fu, questa, una delle tante “prediche inutili” di Einaudi? Parrebbe di sì, a considerare in quale conto vien tenuto oggi il merito, tanto svilito pure da un sistema politico che ha ridotto l’università ad un “laurificio”, sicché forse solo nei non laureati di talento, come Reiss Romoli, o nei pochi laureati con amor proprio e amor di sapere dobbiamo riporre la speranza del risorgimento dell’Italia. Nessuno rispetta quasi più gli uomini rigidi, proprio perché anelastici e intrattabili in una società che privilegia la duttilità e l’adattabilità in un contesto di camaleontismo amorale. Nessuno ama più gli uomini giusti, che scontentano i contemporanei perché la vera giustizia guarda lontano, mentre la contemporaneità disdegna persino il discernere con chi s’accoppia.
Le pretese ingiuste trovano accesso e mietono successi. Le esigenze economicamente scorrette sono presto soddisfatte. I favori d’ogni specie sono scambiati in ogni ceto e ambiente, con metodica assiduità, al riparo della selva delle leggi, delle norme, dei divieti che non vietano, in un frenetico “do ut des”. L’astuzia, la simulazione, il “versipellismo”, il “pennivendolismo” imbellettano l’irresponsabilità fino a renderla gradita anziché indigesta. Il disprezzo, l’irrisione, l’isolamento (civile, politico, elettorale) circondano chi compie il proprio dovere verso la cosa pubblica. Troppi accettano che prevalgano i favorevoli al male. E intanto nessuno paga per il malfatto. Se l’ordine del diritto è instabile e incerto, la massa bada all’oggi e al domani ma non al futuro.
L’orizzonte del giorno tiene le veci del lungo periodo, nel quale si costruisce il benessere duraturo, solido, crescente. Il fare provvisorio, la provvisorietà, domina la società civile e la società politica. Tutti mirano a far presto anziché a far bene. Ma questa corsa aggrava le cose. Non le risolve. Tutti credono che, prendendo le scorciatoie e accelerando, arriveranno prima. Sbagliano. Sempre il nostro maestro Einaudi insegna invece che, per accrescere la prosperità nella libertà, “la via più lunga è la più breve”.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:49