Guerra senza armi degli psicologi

Dentro le aree protette di ascolto dei minori, dentro i luoghi deputati a ricercare le mediazioni familiari, dentro gli incontri riservati per conoscere il vissuto di donne e uomini, dentro il silenzio del transfert tra psicologo e paziente, spesso nella guerra tra uomo e donna, tra separati, tra abbandoni e gelosie, tra risentimenti e vendette, entra un terzo protagonista, lo psicologo, animatore del bene comune, giustiziere tollerante delle ragioni inconfessate e inconfessabili, predicatore di precetti di buon vicinato, teorizzatore dei misteri dell’anima, educatore di adulti impertinenti e livorosi, pacificatore di conflitti rimossi e vissuti, giudice buono che non irroga sanzioni penali o pecuniarie, ma condanna a tenere comportamenti contrari alla volontà del condannato, penalizzando senza fine l’eventuale destinatario dell’errore psicologico.

Dietro lo scudo della scienza psicologica vengono perpetrati veri e propri massacri di vittime innocenti forzate ad espiare punizioni per il resto delle vita, senza appello, considerata l’immaterialità della sanzione. Lo psicologo dichiara di agire nel solco della scienza, secondo paradigmi di provata esperienza stabilmente fondati su uno o più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costruire il fondamento della sua prassi ulteriore.

Paradigmi caratterizzati da un consenso sulla validità dei risultati, i quali vengono ad assumere la veste di modelli che determinano quali siano i problemi e i metodi legittimi e danno, quindi, origine e tradizioni di ricerca scientifica.

Tuttavia, lo psicologo, in particolare quello cosiddetto forense, normalmente non si dedica a controlli severi delle teorie che applica, non avverte che la teoria, generale e descrittiva, possa essere invalidata mediante un suo confronto diretto con fatti od osservazioni e che questo possa condurre al suo abbandono, anche riferito al singolo caso concreto, specialmente nel campo psicologico dove la limitatezza dei tempi di analisi determina l’alta probabilità dell’errore.

In realtà, l’esperienza delle perizie, in particolare di quelle svolte in ambito giudiziario, consegnano alle statistiche di settore dati allarmanti su errori clamorosi non sempre dovuti ai limiti della scienza psicologica, ma a fattori che hanno poco a che vedere con le strutture concettuali, con le quali gli scienziati guardano il mondo della mente e dell’anima.

In analogia con le lotte politiche, gli psicologi non sono da meno, dietro il confronto tra teorie di diverso orientamento, tra contrapposte scelte di paradigmi si affrontano lotte di potere, di personali ambizioni, di reciproci favori, di accordi sottobanco, di vere e proprie truffe a danno delle vittime, che nulla hanno a che vedere con il ricorso ad argomentazioni logiche e all’esperimento sul campo. La stessa vittoria di un paradigma viene influenzata dall’autorevolezza conquistata dal proponente e non soltanto dipenderà dalla sua forza persuasiva nell’ottenere il consenso della comunità scientifica.

Come pure la scelta di perseguire alcune ricerche piuttosto che altre è determinato dalla erogazione di fondi a quell’istituto di ricerca piuttosto che a quell’altro e la personalità del ricercatore non è secondaria alla direzione del flusso di denaro. Alcune tra le teorie, che guardano il mondo diversamente e indicano vari criteri non arbitrari, quali l’accuratezza, la coerenza, la semplicità, la fruttuosità, verranno abbandonate con nocumento del progresso scientifico. Gli psicologi, fratelli-nemici hanno di fronte una realtà più ricca di contenuto, più varia, multilaterale, più viva di quanto anche il migliore psicologo non riesce ad immaginare.

Le varie teorie che si sono moltiplicate nella storia della scienza psicologica segnano la vivacità e il dinamismo di una scienza in continuo divenire, ma i singoli operatori, nel loro quotidiano lavoro, sovente si abbandonano a stanche pratiche di routine, un deposito di aneddoti, una cronologia di casi non confrontabili, un serbatoio di esempi irripetibili che confermano l’incapacità di progredire del sapere per congetture e confutazioni.

La proliferazione di teorie che possano reciprocamente criticarsi è sicuramente migliore della normalità di un consenso dogmatico. Una rivoluzione permanente potrebbe costituire l’ideale dei controlli critici, ma l’attenzione va rivolta anche verso il proponente (la sua storia, la sua onestà intellettuale, il suo sapere accertato), altrimenti ci si avviava a scivolare nella proliferazione di concezioni verso l’anarchismo del “tutto va bene”, purché la gestione del sapere sia saldamente in mano ai vari capo scuola. La scienza dimentica facilmente il proprio passato, tende ad interpretarlo alla luce del presente, sulla base del “paradigma” del giorno; si finisce così per veicolare l’idea che la scienza proceda in modo lineare e cumulativo, da antichi precursori a futuri eredi.

Ma, se proviamo a leggere gli scritti scientifici del passato inseguendone la coerenza interna e nel loro contesto culturale, scopriamo che non sempre gli antichi concetti si riferivano alle stesse realtà a cui si rivolgono oggi. È come se, prima di Copernico o di Einstein, si guardasse il mondo in modo diverso da oggi, si vedesse un’anatra là dove noi vediamo un coniglio, per riprendere la figura ambigua, resa nota dagli studiosi della Gestalt e ripresa nelle ricerche filosofiche di Wittgenstein.

Proprio questi mutamenti percettivi, questi slittamenti di significato, ci impongono di riconoscere l’esistenza di rivoluzioni scientifiche: la storia delle scienze è percorsa da fratture, da discontinuità, e la variazione di un paradigma trasforma i fatti stessi presi in considerazione (l’energia e la materia non sono più la stessa cosa dopo Einstein). Non esiste dunque una base comune, un identico mondo osservabile, che possa fungere da terreno di confronto fra le teorie.

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 10:53