Il gioco dei

Ho cominciato a seguire i “Pacchi” da quando mi capitò di sentire una collega cantare distrattamente “Viva viva Sant’Eusebio, protettore dell’anima mia”, come un famoso tormentone di qualche edizione precedente. La scena fu raccapricciante ma mi indusse a cercare di capire cosa ci fosse a livello comunicazionale in questo programma di così perversamente affascinante e capace di fare presa sulla gente. Non l’ho ancora ben compreso anche se il puzzle comincia a comporsi davanti ai miei occhi ogni giorno di più.

Anzitutto la gente ha voglia di partecipare, di battere le mani a qualcosa di non meglio precisato purché essa non sia troppo impegnativa e ripetitiva quanto basta per spegnere il cervello e ipnotizzarsi. Per molti l’appuntamento serale con la “piazzetta italietta a premi” costituisce lo svago quotidiano, la balera virtuale da frequentare in pantofole e senza bisogno di mettere le scarpe verniciate. I gusti si sono trasformati e non c’è più bisogno di divertirsi; basta, anzi forse è anche meno faticoso, guardare gli altri fare rumore e intonare “i Vatussi” e “l’Alligalli” che tanto manco si deve fare lo sforzo di ricordarseli, presi da un’apatia collettiva che ci porta a bere i bibitoni che ci vendono in tv. Generalmente il pubblico vede ma non guarda questo tipo di trasmissioni, cogliendone solo quanto di vacuo, flebile e agreste (nel senso di tradizionale e folk) ci sia nella solita sempreverde battuta che fa ridere “nonna Maria” da più di mezzo secolo.

C’è un qualunquismo quasi grillino anche nei concorrenti, i quali si sentono genericamente protagonisti: sanno di entrare nel focolare domestico dalla porta principale (cioè dalla televisione) e non vedono l’ora di raccontarsi presi da un fuoco comunicativo senza precedenti che li spinge a partecipare, non si sa bene a cosa e nemmeno come, ma l’importante è partecipare, dire. Non ricordo nei giochi a premi di Mike o di Corrado tanta partecipazione emotiva da parte dei concorrenti, né tantomeno ho memoria di ricorsi massivi a quello che convenzionalmente chiameremo il “pappone emozionale”.

Il pappone emozionale è quella parte della trasmissione sempre uguale a se stessa in cui il valente concorrente si commuove sempre alla stessa maniera e sempre per le stesse cose: il messaggio di “in bocca al lupo” della famiglia o il momento finale della sofferta scelta se tenere il pacco o accettare l’offerta del “dottore”. Ma perché il perfetto concorrente quando mandano in onda il video delle persone care tira giù sempre i lacrimoni? Si appresta per caso a raggiungere il fronte?

Si tratta del classico pianto automatico che si abbina bene alla “famigghia”, a “mammà” che tanti sacrifici ha fatto, al nonno che ha fatto la guerra e all’umile papà, poverino, che si spezzava la schiena nei campi per portare un tozzo di pane alla prole tanto bella e affezionata in perfetto stile Mario Merola per intenderci. E arriviamo al tanto atteso finale, musica struggente di sottofondo e il concorrente sempre pronto a mettere le disgrazie in piazza: sono disoccupato e i soldi mi farebbero comodo. Pianto collettivo; ho i figli tanto talentuosi a scuola e non mi posso permettere l’istruzione adeguata: 3, 2, 1 lacrima; sarebbe bello poter fare un presente a quella santa donna della mia signora che tanti sacrifici ha fatto nella vita: commozione; se vincessi il superpremio potrei convolare a giuste nozze e comprare il nostro nido d’amore: che carino! Singhiozzo.

Predicozzo finale del bravo presentatore nazionalpopolare, proverbio popolare e via, fine della trasmissione e del concorrente alle cui sfighe abbiamo partecipato. Non ne ricordiamo nemmeno la faccia, perché adesso inizia il telegiornale e ci trasformiamo tutti in politologi. Cazzi vostri in onda insomma, abuso di luoghi comuni, eccesso di sentimentalismi plastificati con l’aggravante dei futili motivi e la convinzione che la vita sia quella e che infondo “è col quiz che ti danno i milioni, evviva le televisioni!”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:49