
I burocrati europei hanno ben chiaro come gestire l’iter del fallimento di uno Stato. Soprattutto la giurisprudenza in materia a loro disposizione poggia su esempi storici concreti, come il fallimento dello stato asburgico a seguito delle dispendiose campagne napoleoniche e, per quanto riguarda l’Italia, quello del Regno di Napoli (sfuggito al fallimento grazie all’intervento britannico) all’indomani del Trattato di Vienna e grazie all’intervento di lord Burghersh (ministro plenipotenziario di Sua maestà britannica presso la corte di Toscana). Lo stesso lord Burghersh che sottoscriveva nel Trattato di Casalanza la riconsegna delle chiavi del Regno di Napoli a Ferdinando IV di Borbone.
Se nel 1815 gli inglesi imponevano al Regno delle Due Sicilie le truppe d’occupazione di sir Richard Church, oggi che pretese potrebbero accampare i tedeschi sullo Stivale? A quanto pare nei burocrati dell’Ue si concentra una cinica brutalità che ha poco da invidiare ai militari ottocenteschi. Forse erano più capaci di clemenza i dignitari di quelle corone che gli attuali gelidi ragionieri di Bruxelles. Certamente verrebbero ascritti al fallimento dell’Italia i beni immobili e i patrimoni italiani su cui lo stato italiano ha potuto dimostrare diritti reali (sia immobiliari che mobiliari).
E non è peregrina l’idea che alla fine la tegola caschi sempre in testa all’uomo della strada, quello che ha sgobbato una vita intera per farsi una casetta. Il pericolo è concreto, e il premier Letta risponde ad ogni provocazione con il suo serafico “parliamone”: parliamo del cuneo fiscale (ma nulla è mutato), parliamo della seconda rata dell’Imu sulla prima casa (che ancora pende sulla testa degli italiani), parliamo di non aumentare l’Iva… La manovra è più elastica della pelle di un elefante ma anche più rigida dell’inverno siberiano.
In un solo mese si sono raddoppiati operai e impiegati in cassa integrazione, si mormora addirittura di generare altri esodati in aziende partecipate, e pare che proprio i francesi vogliano veder fallire Alitalia (e per questo si defilano), si mormora che circa 1000 aziende con più di duemila dipendenti lasceranno lo Stivale entro novembre. Tutte notizie che manderebbero in bestia chiunque, ma Enrico Letta risponde “parliamone”.
È un governo a tal punto insipiente da poter concorrere con l’esecutivo Facta, con la Repubblica di Weimar o, peggio, con l’ultimo Pascià turco, quello in tempo spodestato da Kemal Atatürk, e prima che le banche tedesche provvedessero ad orchestrare un bel fallimento della ricca (ma dissoluta) Turchia: per carità, sull’ultimo Pascià ricaddero tutte le colpe dei suoi predecessori, lui era anche capace e intelligente, ma la Turchia era ormai cascata in un baratro simile a quello dell’Italia di oggi.
Un baratro che ne faceva, alla vigilia della prima guerra mondiale, lo zimbello d’Europa: in quella Turchia si cucinavano intrighi, truffe, spiate. Non a caso sul finire degli anni Settanta qualcuno sussurrava (in piena guerra fredda e strategia della tensione) che il ruolo della Turchia pre-Atatürk l’avesse preso l’Italia per quantità di spie, terroristi e truffatori che vi sguazzavano. Far fallire l’Italia oggi è come mandare in fallimento la Turchia del Pascià: in entrambi i casi sono inventariabili ricchezze. Si fa sempre fallire uno stato ricco.
L’Italia è oggi paragonabile ad un medio imprenditore con buone patrimonializzazioni, quindi c’è di che aggredirne i beni. Diverso il discorso di Portogallo, Grecia e Cipro, a cui si possono togliere solo mare, sole e qualche vecchia casa su scomodi isolotti. Si fa fallire l’azienda patrimonializzata, non certo il gelataio col carrettino.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:46