
Il Governatore di Bankitalia Ignazio Visco, il 16 ottobre, ha probabilmente visto la Madonna di Fatima: deve avergli confidato qualche grande segreto visto che, nella stessa data, ha affermato che a fine anno arriverà l’attesa “inversione di tendenza” sull’andamento del Pil italiano. Non contento, ha rincarato entusiasticamente la dose affermando che “l’Italia centrerà i target per il 2015-2017 solo con la stabilità”, erigendosi di fatto ad alfiere delle larghe intese come se la solidità governativa bastasse da sola a risolvere i problemi.
Ma che cos’è questa inversione di tendenza? Lo chiarisce lo stesso Visco: “Il calo della produzione industriale è proseguito in luglio e, in misura minore, in agosto, la caduta dell’occupazione, intensa nel primo trimestre di quest’anno, aumenterà in misura più contenuta rispetto a quelli precedenti”. Tradotto, significa che il peggioramento dei nostri fondamentali macroeconomici sarà meno vertiginoso di prima, anche se di peggioramento comunque si parla. È solo il caso di notare che, da qualche anno, ci si accontenta di non morire sul colpo e si descrive un quadro suscettibile di sicuri miglioramenti utilizzando espressioni quasi da cristiana profezia di una futura speranza di resurrezione.
Arrivato il momento della resurrezione, c’è sempre un altro solenne vaticinio pronto a spostare all’anno successivo le speranze di salvezza. Intanto i profani dati odierni mostrano una Nazione con un debito pubblico da record che veleggia verso il 130,3%, un Pil atteso per l’anno in corso al -2%, una disoccupazione mai così alta dal 1977, una disoccupazione giovanile al 38% e un uso cospicuo di ammortizzatori sociali. Di cosa ci si dovrebbe rallegrare? Ah già, delle larghe intese e del valore intrinseco della stabilità anche se fine a se stessa e orientata al nulla.
Se n’è accorto il Fondo Monetario Internazionale che comincia a diventare insofferente verso la “favoLetta” di un Governo che a piccoli passi sta attuando le riforme avviandosi su percorsi virtuosi. Il Fondo Monetario infatti, nel “Fiscal Monitor” di ottobre 2013, ha lanciato l’idea di un prelievo forzoso del 10% sui conti correnti per lisciare il pelo a tutti quegli Stati europei, Italia in testa, che hanno trasformato le politiche di austerity in furbeschi predicozzi da recitare convintamente alla bisogna. Se n’è accorta anche la London School of Economics che, per bocca del professor Orsi, ci fa sapere che nel giro di dieci anni del nostro Paese non rimarrà più nulla.
Ciò a causa di una classe politica che non ha visione d’insieme e che non sa fare altro che inasprire il prelievo in nome della stabilità. Monti ha fatto così e Letta sta seguendo l’esempio. Il tutto unito a una “terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente, il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa”. Orsi aggiunge che “gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent’anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampante terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale”.
Ci sentiamo di condividere, senza apparire catastrofisti, e aggiungiamo che la funzione di questo Governo sembra quasi quella di agevolare il suicidio assistito di un Paese fermo che blatera di riforme e grandi provvedimenti senza combinare un bel niente. La prova? Ce la fornisce “Il Sole 24 Ore” secondo il quale molti degli interventi messi in campo dall’Esecutivo Monti prima e da quello Letta poi, sono monchi di una serie enorme di decreti attuativi che ne bloccano l’efficacia. In pratica dal 2011 ad oggi ci siamo illusi che una sequela di provvedimenti, dal “Salva Italia” alla spending review di Monti per arrivare ai sette grandi decreti legge targati Letta, fossero immediatamente esecutivi.
In realtà si trattava di leggi che declinavano dei principi generali da riempire di contenuto con specifiche norme operative. Si scopre quindi che lo stato di attuazione delle grandi riforme del Governo Monti è fermo al 40%, mentre il tasso di realizzazione delle innovazioni messe in campo da Letta è fermo al 7%. Volendo entrare ancora più nello specifico, dei 725 decreti attuativi necessari a concretizzare le riforme annunciate dal 2011 ad oggi, ne mancherebbero all’appello ben 469. Allora è chiaro che se la concordia diventa connivenza e se il frutto del trasversalismo è la paralisi istituzionale all’unanimità, ci troviamo di fronte alle larghe attese più che alle larghe intese. Dopo c’è solo il default.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:45