
Chi scrive non è un esperto in politica dei mezzi di comunicazione sociale, anche se ha insegnato nella Facoltà di Scienze della comunicazione dell’università “La Sapienza”, quando esisteva, ma vi ha professato altre cose, teorie e metodi di pianificazione sociale e, poi, storia delle dottrine politiche. Non occorre essere dei grandi esperti, tuttavia, per rendersi conto del gioco di sponda in atto fra “Il Fatto Quotidiano” e il gruppo di “La Repubblica” e “L’Espresso”. Non serve neppure essere troppo faine per accorgersi come, adesso, una strategia mirata non punti l’obiettivo sul Cavaliere Nero, ma su Re Giorgio, il Capo dello Stato. È chiaro, Carlo De Benedetti vuole, stringendo la tenaglia fra Il Fatto Quotidiano e La Repubblica, spingere il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, alle dimissioni.
Il Presidente è il garante dell’attuale governo di larghe intese e vorrebbe reggesse, se possibile, sino al 2015, dopo aver consentito allo stesso di guidare l’Italia nel semestre di sua presidenza dell’Unione europea. Il Capo dello Stato, infatti, condivide in pieno la strategia europeista di Enrico Letta, cioè profittare della circostanza che i due semestri di presidenza dell’Unione del 2014 spettino ai due Stati membri di più antica civiltà, ma anche nelle più grandi ambasce contemporanee, la Grecia e l’Italia, per agire di conserva e ottenere uno spostamento del centro delle politiche europee sul Mediterraneo, rimettendo al loro posto le Nazioni nordiche, quelle barbare, mentre noi donammo al mondo la filosofia, la poesia, le arti, la politica e il giure. Carlo De Benedetti, però, se questo fosse, ha una maledetta paura di morire di fame. Infatti l’imprenditore ed editore che mangia sull’Italia dai primi anni Settanta, ma s’è naturalizzato svizzero per stare al sicuro, si sente, ormai da troppo tempo, a bocca asciutta.
Fu del 1972 l’acquisto, assieme al fratello Franco, della Gilardini, una società quotata in borsa operante nel settore immobiliare, che però usò per speculare nel metalmeccanico, profittando d’essere stato compagno di scuola di Umberto Agnelli. Così divenne, nel 1976, amministratore delegato di una Fiat alla quale lo Stato dava tutto, autostrade, commesse pubbliche esclusive per tutti i mezzi degli autoparchi delle forze armate e dell’ordine e ogni “auto blu”, rottamazioni. Fu un’Italia dove, nel linguaggio del politicamente corretto, non usò l’espressione “conflitto d’interessi”.
Questa divenne, poi, di moda quando scese in campo il suo competitore Silvio Berlusconi. Alla Fiat durò poco. Quando una bistecca la si vuole mangiare in troppe persone sullo stesso piatto, Carlo De Benedetti col fratello Franco e tutto il clan Agnelli, si litiga. Allora, dopo l’acquisto della Cir dai Conti Bocca, che da Concerie Industriali Riunite divenne Compagnie Industriali Riunite, cannibalizzò e distrusse scientificamente la Olivetti. Questo fu il suo peggiore crimine, culturale oltre che industriale. Adriano Olivetti ne aveva fatto un’impresa modello nel mondo, con centri di ricerca che la resero pioniera nell’informatica quando ancora non fu di moda. Carlo De Benedetti disse che quei centri di ricerca potevano essere sciolti per risparmiare, tanto i computer, ormai, si potevano costruire acquistando i pezzi in giro per il mondo e assemblandoli.
Morale della favola, produsse delle macchine che nessuno si sarebbe comprato, se non le pubbliche amministrazioni italiane. Pantalone pagò, l’amministrazione ebbe macchine inutilizzabili, l’informatizzazione dello Stato si bloccò per un decennio almeno, e l’Olivetti da guida nel mondo informatico divenne uno scheletro inanimato da buttare. Intanto, un patto di consorteria chiuso col professor Romano Prodi gli schiuse le porte alla grande abbuffata dell’agroalimentare e delle svendite dell’Iri, di cui il Prodi fu il presidente, ed ebbe per le mani anche come ministro dell’Industria.
In queste operazioni incontrò degli ostacoli in Bettino Craxi, sul fronte politico, e in Silvio Berlusconi, su quello imprenditoriale; cosa che si ripeté nel tentativo di acquisto della casa editrice Mondadori. Da allora Carlo De Benedetti da semplice intrallazzatore si fece cospiratore politico, altro che P2. Con le più discusse sentenze date nel corso di un secolo dalla magistratura italiana, ha tolto a Silvio Berlusconi quasi 750 milioni di euro. Dal 1997, con l’incorporazione di Repubblica a L’Espresso, ha sotto di sé il maggiore colosso mediatico della carta stampata, stando solo all’ufficialità degli atti in Camera di Commercio, ma nessuno, nei suoi confronti, solleva una questione di abuso di posizione dominante per i suoi comportamenti imprenditoriali, o di conflitto d’interesse per gli interventi politici a gamba tesa.
Col nuovo secolo, tentò il riciclarsi nel mondo della sanità col gruppo Kos e dell’energia con la Sorgenia, nonché nel settore dell’usurocrazia finanziaria con Management & Capitali, facendo combriccola con Schorders, Cerberus (anche per le imprese nomen homen) e Goldman Sachs. Ebbe una impennata in borsa solo quando si sparse la notizia di un ingresso di Fininvest, il ché rese evidente chi, tra i due avversari, goda della vera fiducia dei mercati.
Ora, però, con le leggi di stabilità, i tagli sulla sanità e l’energia, non c’è più “trippa per gatti”, come disse Ernesto Nathan, il più grande sindaco nella storia di Roma Capitale, quando rivide il bilancio comunale. Anche Carlo De Benedetti dovrebbe stringere la cinghia, ma il despota economico mediatico non ci sta. Giorgio Napolitano è il garante della stabilità di governo delle larghe intese, e di quel rientro nel pareggio del bilancio dello Stato.
Di qui la congiura di palazzo, il gioco a tenaglia del Fatto Quotidiano e del gruppo L’Espresso. Carlo De Benedetti potrebbe anche ordire un colpo di Stato senza essere inquisito da nessuno. Non si chiama né Licio Gelli né Silvio Berlusconi. Fa parte dei salotti buoni, lui.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:50