
Oggi la politica s’accorge che “non siamo più un paese industrializzato”, che “non primeggiamo più in alcun settore” e che il “made in Italy non significa più molto nel mercato mondiale”. E’ scontato che i fenomeni di globalizzazione abbiano spinto imprese e creativi talentuosi a spostarsi ove è più facile produrre, ed esprimersi al meglio. L’esempio più evidente ce lo danno le griffe della moda, che si sono rifugiate nella Repubblica popolare cinese: ma a ruota un po’ tutta la buona produzione italiana è migrata.
Sono rimasti solo gli imprenditori sottocapitalizzati, perché non economicamente in grado di garantirsi una buona fuga dall’Italia. Un panorama desolante, che funge da interfaccia alla prossima dichiarazione di fallimento del sistema Italia: procedura che certamente verrà avviata in un tribunale europeo sotto l’egida di Bruxelles. Ben si comprende come siano acqua fresca le parole profferite alla Borsa Americana dal primo ministro Letta. Chi mai investirebbe in un sistema paese (l’azienda Italia) prossimo ad una procedura fallimentare che coinvolge aziende sia pubbliche che private come patrimoni immobiliari e mobiliari? Ai grandi investitori conviene aspettare che s’apra il fallimento, e per accaparrarsi i gioielli italiani a prezzi da asta giudiziaria.
Ma come si è giunti alla débâcle? Un risultato che ha visto concorrere sindacati, politici, magistrati, associazionismo ambientalista e cialtroneria imprenditoriale. Così per mano politico-sindacale le banche (sensibili ai partiti) erogavano il credito ai cattivi imprenditori scontentando quelli buoni. Poi una certa sinistra ambientalista ha utilizzato le direttive europee per condurre a morte certa imprese edili, metalmeccaniche, chimiche e conserviere.
A velocizzare la cessazione delle industrie hanno contribuito non poco le sentenze della magistratura. Anche l’agricoltura e l’allevamento sono stati ridotti al lumicino dalle direttive europee che disincentivano la coltivazione del grano (il “set a side”: ovvero lasciare a riposo il 10% delle terre agricole italiane, pagando come se quelle terre fossero state coltivate): la procedura oggi riguarderebbe più del 30% di tutte le coltivazioni italiane. Senza considerare le limitazioni Ue in materia di produzione di latte (le ben note quote), olio d’oliva, vino, agrumi, barbabietole da zucchero… ci sarebbe di che essere autosufficienti, ma per l’Europa è più importante allontanare lo spettro d’uno Stivale alimentarmente autarchico. Non dimentichiamo che, negli anni ’70, all’unisono francesi e tedeschi avversarono l’autosufficienza agroalimentare italiana come fosse una sorta di retaggio autarchico di matrice fascista.
Così ci hanno costretti a rispettare anche le direttive che dicono che un simil-parmigiano si può produrre in Baviera, come un taleggio in Francia, un buon chianti in Provenza. Oggi aggiungono che il grano duro importato dalla Cina può garantire la riforestazione del Mezzogiorno d’Italia. Quindi prima di spingere nuovamente i giovani verso i campi, assicurate loro gli strumenti amministrativi che garantiscano le produzioni, evitando che un europeo qualunque possa tacciare d’illegalità l’agricoltura italiana. Ma questo tipo di garanzie politiche non le può certo offrire la dirigenza del momento.
Alla desertificazione del tessuto produttivo non c’è rimedio, a patto che non intervenga una politica nazionalista coraggiosa. Capace di far proliferare le imprese in barba alle limitazioni europee. Ovviamente ci precluderemmo le grandi forniture verso l’Ue, ma s’aprirebbero più fruttiferi mercati extracomunitari. A conti fatti ci guadagneremmo, anche perché tedeschi, francesi e nordeuropei non comprano più prodotti italiani. Invece per l’artigianato italiano è sempre più florido il mercato russo e quello nordamericano.
L’eccellenza imprenditoriale post-bellica s’è affermata in un clima politico (giudiziario e sindacale) che permetteva ai capitani d’industria d’aprire fabbriche d’auto e fonderie, costruire palazzi e navi, fare cinema e maison di moda. Oggi l’Italia rimpiange quel periodo. Ed in tanti s’accorgono che monta la dittatura d’una sinistra estrema che predica la “regressione felice”, “energia non grazie” (siamo ben oltre l’antinuclearismo), “No-Tav”, “meno fabbriche più boschi”… Tutti sogni: per mantenere questi parassiti si costringe il paese sano sotto il tallone della fiscalità perversa.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:51