Il pianeta giustizia non si tocca

Senza alcun dubbio la riflessione politica ha acquisito, da qualche giorno, un importante elemento per comprendere, a pieno, quanto sia impervio il cammino delle riforme nel nostro Paese. È stato Davide Giacalone, uno dei più importanti commentatori delle vicende politiche italiane, che ce lo ha fornito facendoci aprire gli occhi sulle vicende delle riforme costituzionali, in particolare di quelle riferite al pianeta giustizia che, pur presenti nelle vicende nazionali per l’attività da “elefanti in una cristalleria” di alcuni tribunali e di alcuni organi dello Stato, risultavano assenti nella riflessione collettiva unitaria.

Tutto è esploso con l’emendamento presentato dal parlamentare Donato Bruno con il quale chiede di inserire la materia tra i compiti da assegnare ai 40 saggi, almeno quella strettamente collegata all’ipotesi di nuova architettura costituzionale, con i relativi nuovi poteri che potrebbero essere definiti per il Presidente della Repubblica. Il solo aver accennato a un possibile cantiere giudiziario ha scatenato le ire funeste della Finocchiaro, del Presidente Grasso e di tutti quei sinistri convinti che sia più opportuno continuare ad “accarezzare” i magistrati e non tener conto che la rottura degli equilibri tra i poteri (appalesatasi con le sentenze milanesi e con il pronunciamento della Consulta) apre scenari pericolosi e impensabili fino a poco tempo fa.

Che fosse la sinistra, senza generali ma con cento colonnelli, a tenere questo atteggiamento può considerarsi normale, vista l’assenza da anni di forti leadership capaci di percorsi politici autonomi, visto il rapporto di amorosi sensi, tenuto in questi 20 anni, con la parte politicizzata della Magistratura considerata “utilizzabile” contro i propri avversari, ma vista soprattutto l’assenza di reale senso dello Stato che ha permesso alla pancia di quel partito a prendere il sopravvento e a non far considerare gli accanimenti contro Berlusconi come ferite inferte alla nostra democrazia. La sinistra continua a commettere l’errore di pensare d’aver acquisito meriti che non possono non essergli riconosciuti (a guerra finita), e sottovaluta, come sempre del resto, il pericolo di trovarsi con evoluzioni non controllabili. È lo stesso errore fatto con altre caste che dopo essere state allevate, coccolate e fatte crescere si sono trasformate in nemici spietati. Da Santoro, a Lerner, a Dario Fo a Camilleri, da Ingroia a Di Pietro, da Orlando a De Magistris. Ma il vero problema sta nel fatto che le conseguenze non sono di sola pertinenza della sinistra, ma dell’intera collettività.

Che, quindi, la riforma della giustizia sia la riforma primaria, anche se da affrontare con molta prudenza, doveva essere scontato, vuoi per evitare squilibri a favore del potere esecutivo, che l’introduzione del sistema presidenziale, o semi che sia, potrebbe determinare, ma anche per ripristinare quei pesi e quei contrappesi della separazione montesquieuniana messa in discussione dall’attuale rottura degli equilibri. Passi che la sinistra volesse continuare ad accarezzare ciò che può divenire una belva per la democrazia, però, non si comprende l’atteggiamento del Pdl che ha accettato l’imposizione dell’accantonamento del problema. I laici, sollevati dall’emendamento dell’on. Donato Bruno, sostenevano che gli accordi erano stati violati perché la giustizia non è argomento concordato e da mettere in discussione. Ed è ancora più grave che la reazione dei membri moderati presenti nel governo di “larghe intese” sia stata tutta protesa a giustificare l’emendamento come necessario per ‘raccordare’ la materia con le altre parti demandate alla riflessione dei 40 saggi e che, comunque, tutto sarebbe passato dalle Aule parlamentari. Non vi è in questo atteggiamento solo la preoccupazione che si possa determinare la fine dell’esperimento Letta, ma vi è anche la scomparsa totale della preoccupazione per le sorti della democrazia nel nostro Paese.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:52