Dirigenti pubblici: più efficienza meno Weber

Un importante convegno svoltosi oggi a Roma presso la sala polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a Via di Santa Maria in Via, ha consentito di porre in luce alcuni fondamentali problemi della pubblica amministrazione italiana, o meglio, come ha messo in luce uno dei partecipanti, delle pubbliche amministrazioni del nostro paese. Il tema – “La dirigenza pubblica italiana in una prospettiva europea. Disillusione, identità e prospettive dopo due decenni di riforme” – è il risultato di un’approfondita analisi condotta dal progetto COCOPS, finanziato dalla Commissione Europea per il periodo 2011-2014 (7° Programma Quadro), per analizzare l’impatto delle riforme della PA in dieci paesi Europei (oltre all’Italia, la Francia, la Spagna, il Portogallo, il Regno Unito, la Norvegia, l’Estonia, l’Olanda, la Germania e l’Austria).

L’Executive Survey on Public Sector Reform in Europe (2012) è consistita in un’indagine statistica (tramite questionario) che ha riguardato l’alta dirigenza delle P.A. (soprattutto statale). Attenzione specifica è stata rivolta ai dirigenti (nazionali e locali) del settore sanità e del settore lavoro. Oggetto dell’indagine sono state le loro percezioni, esperienze e opinioni con riferimento al contesto lavorativo e le riforme approvate, i loro valori e l’impatto percepito della crisi economico-fiscale, seguendo una metodologia “standardizzata” per tutti i Paesi coinvolti, per permettere un’efficace comparazione dei risultati. Il campione europeo è molto corposo (4.818 risposte ricevute nel complesso, per un tasso di risposta del 23,4%); 343 risposte ricevute in Italia (tasso di risposta del 23,7%). Dall’indagine è emerso in primo luogo che i dirigenti italiani – o almeno quelli che hanno partecipato all’iniziativa - hanno una visione critica, ma non negativa, del processo riformatore, e sono potenzialmente più disponibili alle innovazioni rispetto ai loro colleghi francesi o inglesi. Come ha rilevato il Ministro della Funzione Pubblica, Gianpiero D’Alia, i dirigenti pubblici vogliono svolgere un lavoro utile per la società, e nutrono ancora un forte senso di appartenenza.

Sono motivazioni che vanno valorizzate, anche restituendo dignità al lavoro pubblico, considerato come un grande capitale di competenze e di capacità da recuperare per la ripresa economica e il rilancio del nostro paese. Non ha certo giovato che le riforme abbiano talvolta preteso una trasformazione quasi ope legis della cultura burocratica in cultura manageriale, senza tener conto della leva della formazione; in questo senso, piuttosto che annunciare nuovi interventi riformatori, dei quali non si sente particolare bisogno, il Ministro ha preannunciato un nuovo sistema di reclutamento e formazione dei dirigenti e del personale, che farà capo ad una Scuola Nazionale dell’amministrazione, destinata a sostituire l’attuale Scuola Superiore. Per tornare ai risultati della ricerca, che sarà presto disponibile su Internet nella sua interezza, e che speriamo quindi di poter analizzare più in profondità, nell’atteggiamento dei dirigenti pubblici italiani prevalgono ancora una visione “weberiana”, improntata all’ottemperanza alle regole piuttosto che all’efficienza e all’efficacia, e una scarsa fiducia nei criteri di valutazione degli obiettivi assegnati. Il loro effettivo conseguimento è difficile da misurare, sono definiti con poca chiarezza e risultano spesso ambigui.

Diverso è il discorso per l’autonomia decisionale: il dirigente italiano ritiene di goderne in misura maggiore rispetto ai suoi colleghi di molti Stati europei, a parte il trattamento del personale, che è fortemente condizionato dalla presenza dei sindacati (in contrasto con la possibilità di assumere e licenziare, particolarmente elevata, ad esempio, nel Regno Unito). Dove le osservazioni sembrano maggiormente critiche, comunque, è nel rapporto con la politica. Si avverte una generale insofferenza verso il livello degli amministratori, che non godono nel complesso di una grande credibilità. In parte questo atteggiamento può derivare dal fatto che l’ondata di riforme delle amministrazioni, che ha investito l’intera area dei paesi più sviluppati a partire dagli anni ’90, in Italia è stata forse caratterizzata da un numero eccessivo di interventi, anche rispetto alla media europea; interventi non sempre coerenti fra loro, e negli ultimi anni legati più alla necessità di risparmi e tagli lineari che ad un’efficace riqualificazione del servizio a favore dei cittadini. Il processo riformatore è visto come qualcosa di calato dall’alto e non costruito dal basso, anche attraverso la condivisione delle parti sociali e degli operatori del settore (a cominciare dai dirigenti stessi).

Perciò, anche se i vertici delle amministrazioni ammettono i miglioramenti in materia di trasparenza, riduzione della burocrazia, innovazione digitale, ciò che si avverte di più è la finalità di contenimento della spesa pubblica, con tagli “lineari” ritenuti molto maggiori dei tagli “mirati”, auspicati, almeno in teoria, dalla maggioranza dei dirigenti italiani; ma è pur vero che le amministrazioni, quando sono state interpellate per scegliere quali dei loro settori di competenza potevano subire una contrazione maggiore rispetto ad altri, si sono trincerate dietro l’assoluta necessità di non deprimere alcuna funzione al loro interno, ritenendole tutte indispensabili. I dirigenti italiani sono nel complesso soddisfatti dei loro collaboratori, ne apprezzano le qualità professionali e la disponibilità al cambiamento, salvo mantenere una visione molto critica del complesso della pubblica amministrazione, con la quale, tuttavia, continuano ad identificarsi, ritenendo che tutto sommato valga la pena lavorare nel settore pubblico. Una visione un po’ ottimistica, non si sa quanto condivisa da chi, ad esempio, deve lavorare a più stretto contatto con i cittadini: fra i limiti – ammessi – della ricerca c’è senz’altro quello, ad esempio, di non aver tenuto conto del settore dell’istruzione, dato che fra gli intervistati non risulta alcun dirigente scolastico. Eppure – e varrà la pena di ritornarci – quello dell’istruzione e della formazione è un tema cruciale del nostro sistema pubblico, tanto in termini culturali quanto in termini economici e soprattutto sociali.

Resta comunque, fra gli elementi positivi riscontrati dalla ricerca, il fatto che il servizio nel settore pubblico, nonostante le retribuzioni più basse – non sempre, in campo dirigenziale – porti chi vi opera a sentirsi nel complesso più motivato rispetto a chi opera nel privato: il che è facilmente comprensibile, in un periodo di crisi delle aziende. I dirigenti si stanno lentamente assuefacendo agli strumenti di gestione e stanno anche maturando una forte richiesta di partecipazione, che non deve essere disattesa, all’implementazione delle riforme attraverso una loro partecipazione diretta, finalizzata soprattutto al miglioramento dei servizi: una problematica, come vedremo in una futura occasione, che investe anche una parte rilevante, ad esempio, dei colleghi francesi. Fin qui la relazione introduttiva, a cura del professor Edoardo Ongaro, coordinatore del progetto COCOPS e docente dell’Università Bocconi di Milano; per parte sua, il Cons. Antonio Naddeo, capo del Dipartimento della Funzione Pubblica, che presiedeva i lavori, ha sottoposto ad una serrata analisi i punti di vista espressi dai dirigenti, mettendone in luce anche talune contraddizioni. Gli obiettivi assegnati ai dirigenti possono, anzi devono essere misurabili (anche perché ad essi sono collegati specifici emolumenti).

Ciò è particolarmente vero in settori cruciali come quello della sanità. L’equilibrio tra politici e amministrazione è stato effettivamente un problema dal ’93 ad oggi, anche in virtù di una certa confusione dei ruoli; mentre la speranza di avere riforme condivise dal basso si scontra con gli interessi particolari che vengono inevitabilmente toccati dalle riforme (a questo proposito Naddeo ha ricordato il caso della riforma della dirigenza proposta dal compianto prof. D’Antona, che proponeva un solo livello di dirigenti differenziati dagli emolumenti e dalle responsabilità, ma si scontrò contro la realtà dell’epoca). Nel complesso, ad avviso di Naddeo, alcune PA sono notevolmente migliorate perché hanno saputo adoperare i nuovi strumenti di gestione; anche il tema dei rapporti con il personale, pur nei limiti – ritenuti ottimi e opportuni - dell’accesso agli impieghi pubblici attraverso i concorsi, stabilito dalla Costituzione, consente ai dirigenti vari gradi di sanzione del dipendente, dai richiami fino al licenziamento. Non è semplice neanche nel privato, ma gli strumenti esistono, anche se qualche volta può mancare la volontà di adoperarli. Un ulteriore, importante contributo è stato fornito dal prof. Elio Borgonovi, anch’egli docente presso l’Università Bocconi, che si è soffermato sull’utilizzo dei dati emersi dalla ricerca.

I dirigenti vanno indubbiamente coinvolti nel processo riformatore, purché le riforme siano legate a valutazioni realistiche e non a modelli imposti dall’esterno. Certo, chi vuole essere agente di cambiamento deve anche assumersi la responsabilità di creare dei momenti di rottura con il passato, ma sempre all’insegna di una concreta attuabilità. Quanto al rapporto con la politica, indubbiamente l'ascesa a cariche di responsabilità pubblica di persone non sempre dotate della necessaria esperienza ha creato ulteriori frizioni con i dirigenti. In una democrazia, secondo il professor Borgonovi, la funzione del politico è capire le diverse motivazioni, creare sinergie e contemperamenti di interessi. L'intervento ha altresì introdotto un nuovo interessante concetto: che ormai si debba parlare di "amministrazioni pubbliche" e non di "pubblica amministrazione". Le amministrazioni operano con traiettorie di cambiamento completamente diverse. Bisogna quindi individuare le situazioni anomale tramite controlli a campione, ma occorre soprattutto evitare le generalizzazioni, tipiche di certa stampa, che partendo da singoli casi-limite gettano un complessivo discredito sul lavoro pubblico. Occorre trovare il modo per far convergere le diverse conoscenze verso una conoscenza complessiva.

I processi di cambiamento dovrebbero orientarsi in base a una "cultura" dell'amministrazione, usando i dati in modo positivo, e non in funzione di difesa dell'esistente. La motivazione legata al senso di appartenenza e al coinvolgimento nel progetto di miglioramento della propria amministrazione non può prescindere da una formazione continua e ricorrente, che da una parte tenga presente il rispetto delle norme, senza irrigidirsi nella pratica dell'adempimento burocratico fine a se stesso, e dall'altra tenga conto delle esigenze che provengono dai cittadini e anche dal mercato. Assai significativo, a questo proposito, l'intervento del Cons. Pia Marconi, dirigente generale presso la Funzione Pubblica, la quale dopo aver rilevato che le analisi come quella oggetto del convegno rappresentano un corpo di dati di grande interesse non solo per studiosi e policy makers, ma anche per la comunità dei dirigenti, ha messo in luce come occorra un frame work concettuale per capire il posizionamento del nostro paese nel contesto internazionale. D'altronde bisogna osservare alcune cautele: si tratta pur sempre di percezioni di un campione di dirigenti facenti parte in prevalenza dell'amministrazione statale, e si tratta di dati di natura soggettiva riferiti a fenomeni con una connotazione oggettiva. Queste constatazioni dovrebbero portarci a tre risultati: la consapevolezza della necessità di nuovi strumenti di management, sempre faticosi da usare in una cultura ancora troppo burocratica, più attenta alle regole e meno al cittadino, un’ulteriore responsabilizzazione della dirigenza, avvalendosi dell'autonomia di cui in effetti dispone, e infine il miglioramento del rapporto tra la dirigenza e la politica, perché il prezzo della separazione è la contrapposizione.

Molti dirigenti avvertono la percezione di essere loro stessi a fare le riforme, mentre i politici non rispettano le loro competenze. Si tratta ovviamente di una percezione riduttiva se non del tutto erronea, che non crea le condizioni del migliore contributo da parte della dirigenza. Questa dovrebbe mirare alla distinzione dei ruoli e non alla separazione rispetto alla politica. Sarebbe certamente auspicabile una migliore gestione della preposizione dei dirigenti ai diversi incarichi, individuandone chiaramente le competenze: in questo modo fra l'altro si riuscirebbe a non disperdere ma anzi a valorizzare le motivazioni dei singoli. Alcuni punti di rilievo sono stati posti in luce da un ulteriore intervento del Consigliere Naddeo, che ha dovuto rilevare la scarsa disponibilità di qualche dirigente ad assumere precise responsabilità di datore di lavoro, soprattutto nelle relazioni sindacali. Sarà senz'altro opportuno studiare ulteriori modalità di autonomia finanziaria, perché al momento parecchi dirigenti non sono responsabilizzati per il modo in cui impiegano le risorse. La stessa figura del dirigente va ridefinita (molti sono chiamati dirigenti, come ad esempio i medici, ma non svolgono effettive mansioni dirigenziali, a parte i responsabili di struttura). Se ogni dirigente avesse una specifica capacità di spesa, sarebbe possibile, anche in regime di spending review, chiedere ad ognuno di operare riduzioni per la parte di competenza, evitando i tanto deprecati "tagli lineari".

Il convegno ha dato poi spazio agli interventi del pubblico, che non si sono molto discostati nel complesso dalle problematiche emerse nelle relazioni principali. Un argomento che varrà la pena di esaminare in un secondo tempo è stato affrontato dalla relazione Una tradizione amministrativa in comune, diversi profili di managerializzazione: i risultati della ricerca COCOPS sulla dirigenza pubblica in Francia, tenuta da Philippe Bezes, del Centre National de La Recherche Scientifique di Parigi. Questo intervento, al di là dell'approccio “positivo" del relatore ha rivelato, quasi sottotraccia, l'esistenza di forti criticità del sistema amministrativo francese all'indomani delle riforme volute soprattutto dal governo Sarkozy. Chi scrive non esclude che in futuro il sistema d'oltralpe, lacerato tra residui dell'organizzazione napoleonica e paradossali ritorni all'Ancien Regime di Luigi XIV, possa "implodere" con effetti preoccupanti sull'economia del paese. Meglio, a questo punto, rendersi conto che l'Italia ce la può fare ancora, grazie anche alle sue amministrazioni pubbliche (per restare fedeli alla nuova definizione del prof. Borgonovi), le quali, bene o male, garantiscono la nostra salute, la formazione dei nostri figli, la nostra sicurezza. Al di là di certe campagne scandalistiche, sono molti di più quelli che giorno per giorno fanno il proprio dovere, rispetto a isolati comportamenti poco commendevoli, non a caso quasi sempre legati al malcostume politico. Riunire questi cittadini a tutti gli altri che, nel settore privato, cercano di rimettere in piedi la nostra economia, dovrebbe essere uno dei punti fermi di qualunque forza politica democratica e liberale. La dirigenza pubblica, nel suo complesso, è una componente sociale da motivare e valorizzare, non da deprimere e demonizzare.

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 11:10