
Come dice quella vecchia canzone? Ah, sì; passeggiando per Milano, passeggiando piano piano... Passeggiando nei dintorni del Palazzo di Giustizia. Per chi ci abita vicino è un must soffermarsi. Un must che dura da vent’anni. Ecco, venti ani fa esatti, c'erano le tv, meno di oggi che è un'occasione da tv mondiali. Meno, certo, ma non meno attive, anzi. Comprese quelle del Cavaliere che avevano in un certo Brosio la cosiddetta punta di diamante che, supplicatone dallo studio, zoomava sulla luce ancora accesa nella finestra del leggendario PM e lui, la punta di diamante dei telecronisti embedded col Palazzaccio, esultava insieme ai cartelli innalzati: Vai avanti Di Pietro! Dio, come passa il tempo. O no? Perché se passeggiando per Milano ci capita, venti anni dopo, di assistere alle stesse scene, agli stessi osanna, agli stessi cartelli, ma con nomi diversi, bè, allora la faccenda è davvero grave.
Già lo era allora e molti politici e moltissimi media fingevano di no, che il Pool faceva la cosa giusta, che la Prima Repubblica era la sentina di tutti i vizi e che il nuovo che avanza(va) non doveva fermarsi, davanti a nulla e a nessuno. Quel palazzo di stile vagamente iracheno annientò il “vecchio che resiste” ma produsse il nuovo, anzi, il nuovissimo: Silvio Berlusconi. Qualcuno parlerebbe di eterogenesi dei fini. Qualche maligno e vendicativo commenterebbe: adesso tocca a lui, questa è la nemesi, la legge del contrappasso. Ma il vero più vero è che il tempo si è fermato, che le lancette sono corse all'indietro dal 2013 al 1993. Il nemico da annientare ha cambiato nome, il cinghialone è un altro, la repubblica è la seconda. Ma siamo sempre lì, davanti a quel Palazzaccio, con le stesse avide telecamere, ma aumentate spropositatamente, con gli stessi o quasi telecronisti. E, probabilmente, con lo stesso risultato. Contano poco le recriminazioni, i fatti, il fatto stesso che il Cav sia o risulterà innocente. Del resto, il caso Ruby era apparso, al mondo intero, e fin dai suoi prodromi intercettativi, come un macigno, un colpo di gong, un processo già consumato.
Il terribile, dunque, era già avvenuto ben prima del 24 giugno 2013.Talché non contano le testimonianze, le arringhe e neppure le infiammate requisitorie. Ciò che conta davvero è una sentenza, questa sentenza, che travalicando le requisitorie parla un linguaggio inequivocabilmente certo, irrimediabilmente fatale. E lo dice non soltanto al condannato eccellente, non solo ai milioni che l'hanno votato, ma alla politica, a tutta la politica. Perché sancisce non soltanto una condanna severissima ma la colloca nel tempo come un monito, un punto di non ritorno, un sigillo inestinguibile. E c'è un perché, chiaro, evidente, lampante. Lo rinveniamo nei venti anni sprecati in una lotta politica fin da subito svuotata nei suoi intenti riformatori dalla logica perversa di un duello all'ultimo sangue contro l'anomalia, l’illegittimità, la montagna degli interessi confliggenti.
Logorata e autodelegittimata nella sua incapacità ad autoriformarsi, la politica ha visto infine il crollo di quel Di Pietro, che aveva sigillato il crollo della Prima Repubblica, e della stessa Lega coi sui antichi amori per il cappio, per non dire dell'An finiana, che venti anni fa gridava “arrendetevi!”, esattamente come il Grillo di oggi. Già, la nemesi. Ma anche Grillo è in crisi, perché anche lui, copiando la peggior sinistra d'antan, ha umiliato la politica. E questa si è vendicata degli uni e degli altri, di tutti, nell'unico modo possibile in Italia: lasciando sul terreno macerie fumanti. Sulle quali si erge l'unico potere rimasto, l'unico non riformato e non riformabile, l'unico che possa e voglia dire, come ha detto e fatto: qui comando io. Passeggiando per Milano...
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:52