Roma, non astenerti stasera

559.558 romani votarono Pdl ed Alemanno sindaco nel 2008. Cinque anni dopo, ne sono rimasti 195.749. Un 35% superstite. 527.723 romani votarono Pd e Rutelli nel 2008. A votare Marino, è rimasto il 48,4%: 267.605 romani. I più che 40mila votanti i grillini sono nel frattempo aumentati del 223%. Un lusinghiero successo, non sufficiente per strappare apprezzamenti dai media. Dopo l’exploit delle politiche, l’asticella a Grillo ed all’antipartitica era stata fissata dai loro stessi fan ad almeno un quarto di milione di voti. Sotto quel livello, ogni risultato sarebbe stato fallimento.

E fallimento è stato decretato. Le amministrative di Roma hanno messo insieme due fenomeni estremi ed opposti tra di loro. La capitale della politica, dove massimo è il numero delle persone che campano di politica e dintorni, ha toccato un numero di astensioni impressionante. Contemporaneamente il concentramento del voto di preferenza è salito molto in alto. Il consigliere comunale Patrizio Bianconi detto sulla scheda nel 2008 Pezzimenti, Zerisi e Biancone e nel 2013 detto Di Veroli Mariani e Titti ha raddoppiato le sue 1533 preferenze personali portandole alle 3621 che si sono però rivelate insufficienti all’elezione, sempre che Alemanno non vinca al ballottaggio. I primi 11 votati del Pdl hanno ottenuto più di 68mila voti di preferenza, duemila più dei primi undici del 2008. Tenendo conto della caduta verticale del voto al partito (meno 64%) e dell’astensionismo romano al 48% , ben superiore di quello nazionale al 38%, il risultato dei magnifici undici è strabiliante, coincidendo con un terzo dei consensi al partito berlusconiano ed è ancora più eclatante se si pensa al fondamentale anonimato politico di assessori e incaricati le cui imprese restano, tranne che per gli addetti ai lavori, oscure.

I nomi di Cantiani (più che raddoppiati i 2.293 voti in 6376), Quarzo (quasi raddoppiati i 4.888 voti in 7172), Tredicine (salito da 5.242 a 7860 preferenze), Mennuni, Cochi (quasi raddoppiati i 3.870 voti in 5162), Pomarici, (più che consolidati i 4.250 in 5415), Cavallari (dai 3.821 ai 4871), Visconti (consolidati i 4.570 in 4625), Guidi, (migliorati i 3.571 in 4198) e Bordoni (sceso da 8.700 voti a 6255) si fanno ricordare solo per le decine di migliaia di manifesti e di lettere che sbucano ad ogni elezione. E’ diverso il caso dell’ex reginetta di bellezza e vicesindaco Sveva Belviso, dato il primato di ben 11mila preferenze, superiori anche al miglior risultato Pd (registrato da un’altra donna Estella Marino), che ha visto la bionda londinese ereditare in gran parte il patrimonio elettorale di 12mila voti del leader 2008 della scheda Samuele Piccolo, crollato e dimenticato sotto i colpi giudiziari. Sulla Belviso, come a suo tempo notò L’Opinione, si è concentrato l’appoggio che conta del vertice nazionale Pd che addirittura un anno fa provò a verificare l’ipotesi di un candidatura diretta della compagna di Lorenzo Riccitelli, titolare di scuderia ippica, saloni d’auto e costruttore.

Al Pdl piace ripetere gli errori; così dopo i flop di Santachè, Brambilla e Polverini è tentata dal riprovarci. La Belviso, però che dopo aver lanciato la lista civica Cittadini x Roma, l’ha abbandonata candidandosi nel partito maggiore, può abbindolare tutti. Come l’altra bionda Mandarelli, già assessore regionale con la destra e con la sinistra, potrebbe portare benissimo i suoi Stati sociali della famiglia dalla parte di Marino. La cultrice dei cimiteri per feti, affascinante per il sorriso e per le ochesche gaffes (dagli sms elettorali ai parlamentari grillini all’accusa di complotto contro la neve del 2012) vuole arrivare costi quel che costi e con la sua massa di preferenze ha dimostrato che non c’è organizzazione partitica che tenga davanti a costose campagne miliardarie. Non c’è dubbio poi che ad aiutare il brillante risultato delle donne (Belviso, Estella Marino, Di Biase, Baglio, Tempesta, Battaglia, Grippo, Tiburzi, Mennuni e Spena) abbia contribuito l’introduzione della doppia preferenza (uomo e donna), ennesimo intervento teso a spingere avanti la quota rosa al di là del consenso effettivo. Lasciatisi alle spalle ben 17 degli iniziali contendenti, si va alla contesa finale del 9 giugno tra Marino e Alemanno, nel deserto degli elettori. Come ha ben evidenziato il sindaco romano, hanno votato gli apparati ed i loro clientes.

Come da tradizione l’apparato di sinistra, giornali e fondazioni annessi, a Roma ha dimostrato di valere tre volte quello di destra. Bisogna riconoscere a Grillo di avere considerato ostile l’astensione, senza ripetere il Pannella di anni fa che accreditava puntualmente il non voto al suo partito. Il 9 p.v. si rischia di vedere le urne ancora più vuote. Marino potrebbe essere il primo sindaco accreditato solo da 15 romani su cento. Da un punto di vista umano Marino è il collega schivato, allontanato, preso in giro, mobizzato, considerato strano. La forza del candidato Pd è proprio di non essere né completamente grillino, né postcomunista, né postcattolico, né gay, né progressista, né socialdemocratico; di risultare quasi una vittima agli occhi dei suoi stesso elettori che nominandolo, fanno atto di mea culpa, emendandosi dai peccati. Marino con lo slogan Liberiamo Roma come già il Pd con l’Italia Giusta accredita l’avversario di essere un po’ diabolico, un po’ lanzichenecco e quasi gli fa un favore. Alemanno, che negli anni si è molto democristianizzato, pur circondandosi di vecchi amici destri, ha sofferto l’altalena del suo partito tra feroce montismo e populismo, punta ancora allo scontro di valori e di progetto economico con l’avversario. Una società drammaticamente colpita nel tenore di vita però non bada ai valori, tanto più quando questi non siano rispettati da alcuno, a destra e sinistra, senza nemmeno incapare in seri anatemiperò non crede più nessuno.

Non bada nemmeno alle modalità di creazione di lavoro, ammesso che il futuro sindaco sia in grado di fare occupazione. Alemanno, che nel 2008 vinse sulla scia dell’exploit berlusconiano, pur facendo anche cose positive, ha sofferto un fuoco di sbarramento mediatico e giudiziario scontato. Il suo avversario non è mai stato il Pd, quanto il Tar. Roma costa, senza alcun intervento speciale, 2 miliardi l’anno; cioè produce 2 miliardi in meno di quel che costa. Alemanno, in parte, ha cercato di farsi carico di un problema che teoricamente dovrebbe essere il principale per tutti i politici locali e dal quale invece tutti fuggono. Alemanno potrebbe recuperare fra i romani del non voto e nel 10% di Marchini, che malgrado gli auspici del leader, fa parte del naturale bacino elettorale di destra. Per farlo, l’ex rautiano dovrebbe liberarsi dei contenuti fotocopia di sinistra in cui l’hanno avviluppato collaboratrici e collaboratori (barboncini, effetto serra, rinnovabili, km zero, vivisezione, bene comune, ecc.) per puntare ai propri contenuti di un nuovo blocco politico, fusione di tanti percorsi in un nuovo populismo non demagogico. Da tanto tempo, però, il Pdl romano non sa quali siano i propri contenuti naturali. Due anni fa, il sindaco di Roma poteva essere un papabile erede della leadership del Cavaiere nel Pdl. Il sindaco non ha mai provato a rafforzare la struttura di partito e di comunicazione, anche per le continue incertezze di posizione. Tutti così punteranno più che a proporre, ad approfittare dell’errore dell’altro. Un programma poco avvincente per far tornare a votare.

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 10:55