
Certi esponenti della Sinistra a chi osa prospettargli l’ipotesi o la speranza che questo governo “delle larghe intese” possa contribuire a riconciliare gli animi, quasi inalberandosi, rispondono indignati: “Ma quale pacificazione!”. Come Achille a Ettore prima del duello fatale: “Nessuna pace tra l'eterna guerra / dell'agnello e del lupo e tra noi due / né giuramento né amistà nessuna, / finché l'uno di noi steso col sangue / l'invitto Marte non satolli”.
La vera, profonda e principale piaga del nostro paese è l’odio. Odio significa divisione, la divisione comporta mancanza di unità, confusione, disorientamento, impossibilità di un dialogo sereno, equilibrato e costruttivo, nonché di un governo stabile che sia condiviso almeno da una cospicua maggioranza del popolo. Gli Italiani fra loro non parlano, litigano. “Il baccano è assordante”, scriveva parecchi anni fa Luigi Barzini: “la gente chiacchiera, impreca, grida, urla, piange, si chiama, conduce a gran voce complicate discussioni o trattative delicate, si deve parlare a voce molto alta per essere capiti”. Selvaggi, ci chiamavano nell’Ottocento gli stranieri, Goethe e Stendhal in testa: il primo ci definiva “un popolo allo stato di natura, non dissimile d’un capello da quel che sarebbe se vivesse nelle caverne e nelle selve”, il secondo scriveva che da Roma in giù c’è “l’allegria dei selvaggi”. Oggi ci siamo un po’ inciviliti, i modi si sono raffinati (come dimostrano certe bionde giornaliste televisive), ma nel fondo siamo rimasti selvaggi. I politici italiani parlano troppo in pubblico, dicono certi osservatori stranieri, e anche questa è una causa del disorientamento e della confusione degli animi.
Ma che parlino troppo sarebbe ancora niente se il più delle volte non parlassero per criticare l’avversario e per insultarlo. Le loro frasi, le loro battute sono lo specchio della disgregazione in atto nel nostro Paese. E’ dai loro discorsi, dal¬le loro discordie interne, che viene fuori l'immagine di un'Italia divisa, frantumata, litigiosa. Bisognerebbe stacca¬rgli la spina, togliergli il microfono e la ri¬balta, limitarsi a rendere pubbliche le cose serie ed essenziali. “Italia mia, benché ’l parlar sia indarno”. Sono sempre attuali le parole con cui Francesco Petrarca nella celebre canzone all’Italia, pur consapevole della inutilità del suo appello alla pace e alla concordia (tanto l’odio era radicato negli animi), esortava i politici a mettere da parte i loro rancori per volgersi al bene del Paese (“Piacciavi porre giù l’odio e lo sdegno, venti contrari a la vita serena”). Prima di lui Dante nella sua celebre invettiva all’Italia, schiava delle fazioni e delle lotte politiche, “nave senza nocchiere in gran tempesta”, esclamava: “In te non stanno senza guerra / li vivi tuoi e l’un l’altro si rode / di quei ch’un muro ed una fossa serra”. Non c’è pace, non c’è concordia nemmeno all’interno di uno stesso partito.
“A Firenze”, scriveva Machiavelli, “in prima si divisono intra loro i nobili, di poi i nobili e il popolo, e in ultimo il popolo e la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti, rimasa superiore, si divise in due”. Di fronte a quelle divisioni il grande storico auspicava l'avvento di un personaggio autoritario che mettesse fine a quella situazione di rissa e di instabilità. La stessa situazione che tre secoli dopo faceva dire a Stendhal: “(In Italia) ci vorrebbe un Napoleone. Ma dove lo si va a prendere?”. “I più pericolosi nemici dell’Italia sono gl’Italiani”, scriveva Massimo d’Azeglio. “La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse, è la lotta interna”; Foscolo esclamava: “Purtroppo noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degli italiani”; Leopardi diceva che gli Italiani “posseggono l’arte di perseguitarsi scambievolmente”, “passano il tempo a deridersi fra loro, a pungersi sino al sangue, a mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui”; Francesco Crispi lamentava l'impossibilità di costituire in Italia un governo qualsiasi a causa delle risse fra i par¬titi, della “disgregazione della compagine nazionale”, della “annebbiata coscienza dell'unità e della stessa ragion d'essere della patria”.
Nel primo dopoguerra, in Italia, la miccia dell’odio e della violenza l’accese la Sinistra, con gl’insulti e le aggressioni ai reduci, le bastonate alle forze dell’ordine, gl’incendi alle fattorie (con l’avvelenamento degli abbeveratoi e il massacro degli animali), l’occupazione delle fabbriche, gli attentati, le devastazioni, gli assalti ai negozi, gli scioperi (in un solo anno, nel 1919, ve ne furono 1.663), il furto di armi nelle caserme, e così via. Le reazioni dei fascisti (che illustri antifascisti come De Gasperi e Salvemini definivano legittime e a scopo difensivo) furono la conseguenza di questo odio e di questa lotta senza quartiere, ed era inevitabile che alla fine si arrivasse al Regime. Nel 1928 Paolo Orano scriveva che gli oppositori "spendevano il fiore del loro tempo in manovre di corridoio per rovesciare il governo, mettendolo alla gogna, bersagliandolo quando a fuoco rado quando a fuoco di fila o a tiro dì sbarramento, concentrando su di esso sentimenti d'ira e di vendetta, contrastandolo in astratto e stancando il loro cervello in una critica sterile e senza quartiere". E così concludeva: "A costoro non rimane per tutta arma che l'insulto: insul¬to, dileggio, canzonatura, sarcasmo sono mezzi effica¬cissimi per il giornalismo brigantesco, che le norme della dignità formale se le lascia dettare dal complotto del pubblico con gli stessi diffamatori, i quali non mirano che ad abbassare alla loro sozzura coloro che sono in alto giudici fieri e sdegnosi di se stessi".
L’odio e la violenza che turbano il nostro paese hanno radici lontane. Nel Medioevo e nel Rinascimento esistevano in tutti i paesi occidentali, ma gl’Italiani ne avevano un vero e proprio culto. In Italia la violenza, molto radicata nella Romagna e nel meridione, era ben diversa da quella manifestatasi in Inghilterra durante le guerre civili, in Francia durante le guerre di religione e in Germania durante la Guerra dei Trent’anni. E poi c’era il brigantaggio, i banditi tendevano agguati continui ai viaggiatori, ai passanti, e in questo clima i genitori insegnavano ai loro figli ancora bambini a farsi giustizia da sé, così la violenza cresceva sempre di più. I cosiddetti delitti d’onore erano all’ordine del giorno: i mariti che uccidevano gli amanti delle proprie mogli spesso agivano a sangue freddo, deliberatamente, perché sentivano come un dovere l’esigenza di vendicare l’affronto fatto al loro onore e a quello della famiglia. Non si salvava nemmeno la Chiesa, visto che in Vaticano i cardinali si avvelenavano l’un l’altro, e più di una volta avvelenarono il Papa. La violenza per la violenza, l’insulto gratuito, l’odio istintivo per chi ha idee politiche diverse sono una prerogativa abbastanza evidente del carattere degli Italiani, a cui non sfuggono (lo vediamo ogni giorno) certi conduttori e conduttrici della televisione, che invece di fare i moderatori si comportano peggio degli interlocutori, polemizzando violentemente con loro, interrompendoli, sparando a raffica il loro odio viscerale e introducendo argomenti che non hanno nulla a che vedere col tema della trasmissione, ma semplicemente per fare un dispetto all’‘avversario’. “Ma voi che cosa siete?”, disse un giorno Romano Prodi ad alcuni giornalisti del Centrodestra che volevano intervistarlo (ma è come se lo avesse detto a tutti gli elettori di quella parte politica).
E Rosy Bindi, più decisa e sbrigativa: “Io con voi non ci parlo”. “Chi fur li maggior tui?”, chiede Farinata a Dante prima di intrattenersi a parlare con lui (nel X canto dell’Inferno), come a dire: ‘Dimmi di che partito sei e io mi regolerò di conseguenza’. Certo, Dante, che pure ha parole di fuoco nei confronti delle fazioni che dilaniano il Paese, qui si contiene, perché glielo suggerisce Virgilio, la ragione, costruendo un dialogo, anche se serrato e aspro, in definitiva pacato. Così se Farinata ricorda di aver disperso per due volte i nemici, Dante ribatte ch’essi tornarono “l’una e l’altra fiata”; ma nelle sue parole non c’è alcuna ritorsione, c’è solo l’amarezza che nasce dal ripensamento oggettivo dei fatti e della catena di odi e di violenze di una spietata lotta politica, che spesso mira all’eliminazione fisica dell’avversario. E se Dante rammenta a Farinata “lo strazio e il grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso”, cioè la strage di Montaperti, Farinata risponde: “A ciò non fui io sol… né certo sanza cagion con li altri sarei mosso” (giustificando quel gesto col desiderio suo e dei suoi di ritornare in patria). Ma a proprio vanto (e questo è un grande merito che Dante riconosce al suo avversario) aggiunge fieramente: “Ma fui io solo, là dove sofferto fu per ciascun di torre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto”. Ed è sua l’ultima parola. Si chiude così questo esemplare faccia a faccia in cui nessuno dei due interlocutori ha la presunzione di essere l’alfiere della giustizia e della verità: quel che più conta, infatti, per entrambi, è l’amore per la patria comune.
I duellanti si affrontano, ascoltandosi con attenzione e con rispetto, ponderando le parole come si conviene a dei galantuomini, anche se di partiti diversi, in un confronto aspro ma civile, tanto che alla fine non si sa chi dei due sia il “vincitore”. Non sarebbe male se negli studi televisivi in cui si svolgono i dibattiti si appendesse alla parete un bel quadro raffigurante Dante e Farinata con la scritta “Le parole tue sien conte”. Nel Ventennio le strade, i locali e i mezzi pubblici erano tappezzati di cartelli che invitavano al rispetto e all’osservanza di certe regole, perché la trasgressione, la tendenza all’insulto, alla bestemmia, negli Italiani è sempre pronta ad esplodere. L’odio alberga persino nell’animo di molti magistrati: spesso si accusa e si condanna per odio, non per amore di giustizia, non si persegue il reato, dopo che sia stato scoperto o denunciato, ma lo si va a cercare: individuata la persona, da odiare, si va a ficcare il naso nella sua vita privata, trascinando nell’infamia altri innocenti, non importano i mezzi a cui si fa ricorso (pentiti, criminali, prostitute, spie, intercettazioni), perché il fine giustifica i mezzi non solo in politica ma anche nel campo giudiziario. Socrate soleva dire: “Non rimprovero i giudici per avermi condannato, li rimprovero per avermi condannato con cattiveria!”. E alla cattiveria, nelle aule giudiziarie, si aggiunge la curiosità morbosa di fatti la cui conoscenza in ogni caso non è necessaria ai fini del reato contestato (“Ma dove la toccava di preciso, sopra, sotto?”). Terenzio diceva: Ius summum saepe summa est malitia.
In Italia l’odio ha raggiunto dimensioni e manifestazioni preoccupanti: dalle aggressioni verbali siamo arrivati a quelle materiali, dal treppiedi e dalla miniatura del duomo di Milano alle picconate. Saranno casi isolati, ma certamente gli squilibrati che compiono simili gesti risentono di questo clima infuocato e recepiscono i messaggi e i segnali lanciati, consapevolmente o no, dalla Sinistra. Per chi abbia passato una vita ad augurarsi, a sperare, ad aspettare, anno dopo anno, che gl’Italiani tornassero uniti e concordi è motivo di grande amarezza pensare di doversi portare nella tomba il peso di tanto odio, senza poter intravedere, alla fine, nemmeno uno spiraglio di pace. Gli Spagnoli dopo la guerra civile si sono subito riconciliati, accomunando in un unico cimitero i morti di entrambe le parti, e così pure hanno fatto i cittadini delle altre nazioni alla fine del secondo conflitto mondiale. Da noi, invece, c’è ancora una parte politica che continua a celebrare il 25 aprile con lo stesso spirito fazioso del 1945 (come se il paese lo avessero liberato i partigiani), insultando quelli dell’altra parte che osano intervenire guastando la sua festa. Nel 2005 Giorgio Bocca, in risposta alla “pietas cattolica” di Cesare Pavese, che aveva esortato gl’Italiani alla pacificazione, rivolgendosi ai rappresentanti del Centrodestra, scriveva: “Ci danno un grande fastidio i faccendieri della politica che starnazzano e si agitano per mettere assieme partigiani e camicie nere. Siamo stati molto disuguali da vivi, e lì ci fermiamo!”.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:50