Nel suo discorso per la fiducia il premier Enrico Letta aveva addirittura evocato le sue dimissioni, nel caso in cui dopo 18 mesi avesse constatato uno stallo dei lavori della Convenzione per le riforme. Ebbene, la Convenzione potrebbe non nascere nemmeno, stando alle ultime indiscrezioni. D'altra parte, perché correre il rischio di avvitarsi sul nome di chi dovrebbe presiederla? Quagliariello già vede crescere esponenzialmente la centralità del suo ministero, che senza Convenzione diventerebbe il vero e proprio motore del processo di riforme, naturalmente in collegamento con le commissioni parlamentari competenti. Ma più importante della sede e delle formule è la volontà politica. Più che una “Convenzione”, per le riforme servono convinzioni salde. Convinzione della necessità di fare sul serio, stavolta, volontà di cambiare il sistema, di superare inefficienze e farraginosità dei meccanismi decisionali; e convinzioni su dove, verso quale forma di governo si vuole approdare. Il governo Letta, partito con i fattori di debolezza di cui abbiamo scritto qualche giorno fa, ha un solo modo per durare: fare cose. Se si ferma, se si limita a chiacchierare delle cose da fare, è destinato a cadere. E' ancora presto per parlare di inconcludenza dopo il rinvio alla prossima settimana del decreto su Imu e Cig in deroga – in fondo qualche giorno per un approfondimento tecnico ci sta tutto – ma certo restano tutte le incognite di un esecutivo che sembra nato più per scongiurare il ritorno alle urne a giugno, e per non fare uno sgarbo al presidente Napolitano appena rieletto, che sulla base di un accordo politico – nel senso di politiche da attuare – tra Pd e Pdl. Non importa che sia un governo di legislatura, ma da alcuni segnali – il “mini-rinvio” della rata Imu, la Convenzione già tramontata, la ricerca delle coperture finanziarie nelle pieghe del bilancio anziché lavorare ad una vera e propria svolta di politica fiscale – si intuisce un programma troppo poco ambizioso e, di conseguenza, un orizzonte temporale ristretto. Ancora non è intellegibile la vera natura del governo Letta: se balneare, giusto il tempo di passare l'estate, o se davvero di “larghe intese”. Più probabilmente la verità è che la sua identità è in fieri. Nessuno dei due principali azionisti della strana maggioranza – Pd e Pdl – ha ancora le idee chiare sulla sua missione e, quindi, la sua durata, ma nemmeno si pongono limiti a priori. Uno spazio di manovra che Letta e i suoi ministri non dovrebbero esitare a sfruttare. Il Pd è la chiave di tutto: perché se il Cav non avrebbe dubbi a sostenere un processo riformatore, ripagato dalla legittimazione da parte dei suoi avversari e dell'establishment, e dal ruolo alla De Gaulle italiano che potrebbe vantare, più incerto è se il Pd sia davvero disposto a legittimarlo, se sia sincera in Letta, e condivisa nel suo partito, la volontà di pacificazione, o se invece si punta semplicemente a superare l'estate, magari incassando una riformicchia elettorale prima di tornare al voto, come suggerito da D'Alema nei giorni scorsi. Se la via delle riforme costituzionali verrà seriamente intrapresa, allora la legge elettorale non potrà che arrivare a coronamento del processo “ri-costituente”. Pretendere, invece, di cominciare dalla riforma del sistema di voto può voler dire che si ha in mente un governo semi-balneare e non di “larghe intese”, una tregua e non una vera pacificazione. Peccato che, parafrasando le parole attribuite a Kissinger sull'Europa, in questo momento a voler parlare con il Pd non si sa nemmeno chi chiamare. Mancano interlocutori attendibili, in grado di assumere impegni ai quali tutto il partito si senta vincolato. Dunque, in queste prime settimane in cui Pd e Pdl sembrano più che altro studiarsi a vicenda, sta a Letta incardinare la rotta delle riforme, economiche e costituzionali, impegnare i gruppi parlamentari, e occupare il dibattito politico, sui contenuti. Se tergiversa, se temporeggia, rischia di soccombere al ritorno dei rispettivi tatticismi. Deve rendere al più presto visibile, a portata di mano, la prospettiva di vere, sostanziali riforme, così da rendere il più possibile costoso politicamente affossarla in nome del ritorno alla logica dello scontro e della demonizzazione dell'avversario. Ma ciò implica, naturalmente, che il Pd decida definitivamente cosa vuol essere: se una forza di governo aperta a ricevere la fiducia della maggioranza degli italiani, o se un'incattivita forza identitaria chiusa nel recinto ideologico e lamentoso di un 20% di cittadini.
Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 11:24