
È ormai comune e quasi scontato vedere notizie costruite come patchwork di tweet. Sui giornali e i tg nazionali le micro interazioni 2.0 stanno diventando vere e proprie fonti ufficiali, oltre che brillanti occasioni per titolone, occhiello o attacco dei pezzi. Twitter sembra il degno erede delle agenzie stampa: più veloce e flessibile, sta inebriando il mondo dell’informazione e della politica italiana, almeno fin quando non delude le aspettative, come nel caso delle ultime dichiarazioni di Bersani. Fallito il suo progetto, fallito il PD, il leader ha scaricato la responsabilità sulla tecnologia che, in effetti, non è neutrale, ma che di certo può essere plasmata. Proprio l’uscita di Bersani lascia percepire quanto peso si possa dare oggi ai “nuovi” mezzi di comunicazione: attori indiscussi del momento, piacciono e spaventano al tempo stesso e, soprattutto, lasciano aperti molti interrogativi sull’effettivo potere che sono in grado di esercitare.
Ma che cosa si cela dietro al fascino dei social media, gli strumenti – si intende – che meglio caratterizzano questa nostra società, da qualcuno già definita post-democratica? Per rispondere è forse utile rispolverare il manifesto di J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, scritto dal filosofo post-strutturalista nel 1979 e tradotto in Italia per Feltrinelli nel 1981. Perché tornare a quando il Web non esisteva ancora per parlare di social media? Semplicemente perché in quel breve saggio ci sono una serie di intuizioni riferite ai media di massa (soprattutto giornali, radio e televisione) che ben si adattano anche ai nuovi media e al mondo dei 140 caratteri in particolare. Intuizioni che possono essere trasposte sui new media, ma che soprattutto potrebbero aiutarci a riflettere sul presente e il futuro dell’informazione e della comunicazione politica.
Twitter è facile e veloce ma non è la verità: è una verità “on demand”
Lyotard parla di “fine delle grandi narrazioni”, che a suo avviso coincidono con la fine della storia in quanto processo assoluto e uniforme. Come a dire: lo storicismo marxista cambia faccia, adattiamoci! Ma soprattutto Lyotard nota come i media spingano verso nuove forme narrative e nuovi linguaggi. Linguaggi frammentati, come quelli dei titoli e degli slogan appunto, che sono tanto più efficaci quanto più capaci di far leva sulle nostre emozioni. È vero: dovendo stare alle costipazioni di spazio e di tempo imposte dai media a politici e giornalisti, la retorica si sbriciola, l’analisi tende a scomparire e il confronto diventa spesso una competizione di strilli e provocazioni. Se i mass media sono stati i principali portatori di un’informazione e una comunicazione politica in pillole, Twitter rappresenta oggi lo spazio ideale per questa narrazione sbriciolata. Si tratta di una forma di racconto che affascina, perché sembra facile e perché – se non altro – è velocissima. E questo inebria i politici che vi vedono l’opportunità di dialogare con gli elettori senza alcuna mediazione, aggirando la censura e lo strapotere dei media tradizionali, almeno apparentemente.
Ma Twitter è inebriante anche per i giornalisti che possono scendere in campo direttamente, aggirando lo strapotere delle agenzie, e partecipare a una forsennata caccia al tweet più popolare, più ridicolo o più critico. Se immediatezza e disintermediazione esercitano un enorme fascino su politici e opinion leader, usare e citare Twitter come fonte ufficiale piace anche per un altro motivo: la relativizzazione della verità. Non è un caso, infatti, che uno dei primi filosofi ad occuparsi dell’evoluzione dei linguaggi per effetto dei media sia stato proprio un filosofo post-strutturalista, che con quel saggio appena citato ha gettato le radici per la nascita del postmodernismo, corrente per molti versi vicina al relativismo. Ebbene, le considerazioni di Lyotard possono essere spostate anche sul mondo Web. I social media inebriano perché danno facilmente adito a posizioni relativiste. In un certo senso, si può dire tutto e il contrario di tutto e molteplici fonti, anche contrapposte, possono apparire valide e affidabili insieme. La rete diventa dunque lo spazio ideale per costruire una verità relativa e sempre più relativizzata, una verità on demand. E’ il nuovo spazio della politica, ma anche della società (civile) postmoderna. Insomma, Internet è la “società liquida” che avanza, per dirla con un’espressione tanto cara a uno dei sociologi più pop del momento, Zygmunt Bauman.
Twitter relativizza tutto: innervosisce i vecchi e fa diventare isterici i giovani
Ma la posta in gioco è altissima. Relativizzare è una strategia facile nel breve periodo: non servono teorie e sistemi valoriali forti, ma semplici slogan trasversali. Nel lungo periodo questa modalità di espressione, senza uno spazio di rielaborazione reale dei contenuti, rischia però di compromettere i processi democratici. Grillo è una case history eccellente: il M5S è nato cavalcando il fascino delle nuove tecnologie e della partecipazione diretta, è di fatto una fucina di azioni dimostrative, di immagini ad alto impatto, di slogan urlati – anche nelle piazze fisiche – ma privo di una base programmatica capace di entrare nelle logiche delle istituzioni democratiche. Non diverso è ‘l’affaire’ Bersani, che – galvanizzato dalle “nuove narrazioni” – si è lasciato prendere la mano da una strategia comunicativa fin troppo ricca di slogan confusi, utile forse in campagna elettorale, ma inadatta per governare. Tutto questo per dire che un relativismo spinto, l’assenza di un sistema di valori radicato e condiviso e soprattutto altamente rielaborato e interiorizzato rischiano di diventare il principale fondamento della società dell’informazione in rete. Va bene, dunque, subire il fascino dell’innovazione, esaltarsi davanti alla possibilità di ampliare gli spazi di interazione e relazione, ma forse serve anche un momento di analisi e autoanalisi, perché tutto quello che è 2.0 non diventi una verità relativa a priori. Pensiamoci!
tratto da www.likebreakfastcereal.it
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:44