
Secondo le ultime dichiarazioni del sindacato europeo (Etuc), i problemi principali dei lavoratori nel vecchio continente sono, per esempio, la revisione sociale dell’unione monetaria poiche l’Europa non deve essere un’unione doganale, ma un’area per il progresso economico sociale; ancora, la redazione di bilanci socio-ambientali in nome della responsabilità sociale d’impresa. Problemi fondamentali sono anche il clima ed il relativo blocco delle emissioni Co2, che ha ricevuto in settimana uno stop da parte degli europarlamenti, con grandi critiche di Greenpeace ed altri ambientalisti. Ed infine l’evasione fiscale ed i paradisi fiscali dove verrebbero depositate le tasse non pagate.
Manca dagli ultimi spotlight l’allarme su femminicidio e retribuzioni inferiori femminili per chiudere il cerchio. Insolvenza, bilanci, clima, tasse e donna sono i temi principali del sindacato europeo, mentre i lavoratori affrontano una crisi epocale di perdita di posti di lavoro, di diminuzione dei salari e stipendi e di scomparsa di settori produttivi europei di fronte alla competizione globale. L’Etuc con 60 milioni di iscritti sulla carta dovrebbe avere un’impressionante capacità mobilitante; invece assomiglia più ad una struttura partorita dalla burocrazia europei di cui mantiene le stesse idiosincrasie. Si prenda la questione dei paradisi fiscali su cui il Consorzio Internazionale di giornalisti investigativi, ha redatto un rapporto citato con enfasi dall’Etuc. Quelli dell’Icij, un po’ Chi l’ha visto ed un po’ Gabanelli, si vantano di avere, sull’orma di wikileaks, saccheggiato i file di 10mila persone e società di tutto il mondo, insieme a quelli di UBS, Clariden, Deutsche Bank e principali banche mondiali per pubblicare visi e storie connesse con i paradisi fiscali. Tutto bello e giusto, se si manda in soffitta per sempre sicurezza, privacy e custodia dei dati.
Dopodichè nessuno può più difendere alcuna riservatezza. Nei paradisi fiscali riposa un terzo del Pil mondiale, oggi calcolato a $74mila miliardi, per un ammontare di ben $21mila miliardi, in mano per metà a imprese e banche e per l’altra metà a 91186 persone in carne ed ossa. La gran parte dei 91mila nababbi proviene dall’estremo oriente rampante (Cina, Sudcorea, Indonesia, Malesia e Singapore) da dove sono spariti $2480 miliardi; dal Sudamerica (Venezuela, Brasile ed Argentina) e dall’Europa orientale (Russia Polonia, Ucraina Ungheria Turchia) che ce ne hanno rimessi rispettivamente $1326 e $1290 miliardi con a seguire mondo asioarabo per $1091 (Arabia Saudita, Iran Kazakhstan, Kuwait) e quello africano per 447 (Nigeria, Costa d’Avorio). Ciò che sorprende è che questi danari sono poi finiti nelle borse americane, in primis nel Delaware, ed in quelle europee (2° è l’Olanda, 3° l’Eire, 9° la Svizzera). Sono finiti nelle isole Vergini, che sono metà UK e metà Usa oppure stanno proprio in mezzo alle istituzioni europee nel Lussemburgo (8°). L’Asia ha recuperato solo grazie ad Hong Kong (5à) e Singapore (7°). Le famigerate Isole Cayman rappresentative per antonomasia del paradiso fiscale sono solo seste nella particolare classifica dei paesi beneficiari dei capitali in fuga.
Le Cayman erano state definite in Italia nel 1999 Stati a regime fiscale privilegiato, con limiti sui rapporti commerciali. Poi, mentre salivano le urla contro l’evasione fiscale la lista nera è scomparsa, la lista grigia che annoverava 31 paesi si è ridotta a Nauru e Guatemala e proprio il governo Monti ha eliminato tutte le liste negative. C’è un senso in tutto questo. Le regole di libero scambio prevedono la competizione sull’attrattività fiscale per gli investimenti ed i trasferimenti dall’estero. L’eredità della decolonizzazione ha prodotto una continua nascita di stati la cui indipendenza deve essere rispettata. Nel 2006 gli stati sovrani erano 192, oggi dopo 6 anni sono 204: una media di uno Stato nuovo all’anno. L’infinita schiera di luoghi sovrani ha un suo proprio sistema fiscale. Metà dell’interscambio mondiale viene ormai contrattato direttamente nei paradisi. L’Europa difende la libera circolazione dei capitali per la libertà d’impresa. Secondo il sindacato europeo, l’Unione non deve essere una zollverein, un’unione doganale. Lo fosse, dovrebbe progressivamente giungere ad comune livello di tasse e prezzi, tanto più in presenza di una moneta unica.
Proprio perché non è un zollverein, i capitali trovano più vantaggioso andarsene in Austria, Belgio, Lussemburgo o Svizzera, anche dal resto dell’Infraeuropa. Forse questi capitali sono frutto di evasione, e forse no. L’ottimizzazione fiscale, perfettamente legale, permette a Google, Facebook, Amazon ed Apple di risparmiare mille miliardi di euro all’anno in Europa. La norma antidelocalizzazione fatta per i call center nel 2012 non ha fermato il fenomeno, anzi. Difficile stabilire se un investimento all’estero è vero o fatto solo per esportare capitali. L’era del libero scambio globale non ha il problema dei flussi di capitali, ma quello della concentrazione della ricchezza, dovuta al monopolio prioduttivo e finanziario. Ed il monopolio, mentre si pensa a clima, donna, Insolvenza, bilanci ed evasione, cresce. È vero che sono $100 rispettivamente i miliardi tedeschi ed Usa finiti nei paradisi (cioè in Svizzera ed in Delaware) ma i $6200 miliardi dei paesi più arretrati permanentemente offshore ( 640 pakistani, 370 vietnamiti, 274 bengalesi, 750 nigeriani), così come metà della ricchezza sudamericana, contribuiscono alla ricchezza del cosidetto Occidente. Pensando veramente di imporre al capitale un obbligo morale di redistribuzione e di investimento in loco si sostiene che gli $11.500 miliardi trattenuti nei paradisi dovrebbero fruttare in tasse 255 miliardi. È un calcolo mal riposto.
Senza i vantaggi paradisiaci, si sarebbero ridotti al 10%. Senza liberoscambio non avrebbero portato ad una crescita mondiale del 3,8% (aprile 2013), sostenuta malgrado il flusso sopra descritto che dai nuovi paesi avanzanti giunge anche in Europa. Per i lavoratori ed i pensionati europei, a rischio, esodati e sotto austerità, è indubbio che l’arrivo di capitali, anche dopo i prelevamenti di banche e blue chip, dia un respiro di sollievo. Risulta dunque incomprensibile la riprovazione del fenomeno da parte del sindacato europeo che sembrerebbe, in nome di algidi principi, volere una condizione peggiore per i propri membri. È vero che alcune misure oggi sembrano necessarie, dalla riduzione dei paesi sovrani ai tassi fiscali comuni. Obiettivi raggiungibili non dall’economia, ma dalla politica, con l’accordo dei primes inter pares. Appena, però il discorso suona sinistramente decisionista, lo si abbandona preferendo i vuoti appelli.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:47