
Luigi Gambardella si è tolto il cappello capoassociazione di cittadini che chiede più innovazione, un’alleanza per Internet e già che c’è un ministro per il web. Se lo è tolto ed ha ripreso quello più veritiero di presidente delle aziende di telecomunicazioni europee (Etno) incontrando in questa veste il più alto rappresentante italiano al governo d’Europa, Antonio Tajani vicepresidente Commissione. Sullo sfondo, come d’incanto, è sparita la favola del quasi milione di specialisti dell’economia digitale richiesti dal mercato della Grand Coalition e si è materializzata “la necessita' di un vero mercato unico digitale.” Come mai questa improvvisa necessità? Gambardella l’ha buttata sull’ottimistico: le comunicazioni digitali (Tlc, It, Tv, editoria) europee valgono €680 miliardi e possono contribuire allo sviluppo. Un vero buon samaritano, che, mentre va tutto così bene, non pensa altro che ad aiutare il resto dell’economia derelitta. L’incontro in realtà manifesta un grido, anzi uno strillo di dolore. I primi 5 mercati telco europei stanno a €123 miliardi.
Meno della metà del 2007 ($300). I ricavi del settore scesi nel 2012 dello 0,7%, nel 2013 andranno giù del 3,8%; gli utili del 6,8% combinato 2012-13. Gli azionisti abbandonano la baracca portandosi dietro 17 miliardi dei 43 degli investimenti di Borsa del 2011. Le telco americane crescono fra il 6e l’8%; le europee calano tra il 3% ed i 5%. Prima, l’Europa mentre assisteva impassibile ai funerali del sistema operativo symbian di Nokia un tempo leader dei telefonini, ed alla fine della leadership Gsm di un decennio rispetto agli Usa, ha abbassato di forza i prezzi, dal roaming agli sms alle terminazioni. Ora, mentre si oppone alla fusione France Telekom- Deutsche Telekom ed a tutti gli altri consolidamenti (ma non all’acquisto di Orange Austria da parte dei cinesi Whampoa o di Wind da parte di egiziani o russi) pretende che le telco investano € 221 miliardi per le autostrade in fibra ottica. Concettualmente l’Europa tra web, trasparenze e libertà di circolazione, è tutta costruita sul mito della rivoluzione digitale, mututa dalla grande espansione Usa del ventennio ’80-’90.
Gli Usa però hanno sempre guardato al mondo digitale come un unico grande mercato da conquistare a tutti i costi, l’intero pacchetto mondiale delle tlc da 1600 miliardi, dell’informatica (vecchia, nuova e nuovissima) da mille miliardi, della pubblicità da 460, della tv da 340, dell’editoria da 105 e della posta da 93 miliardi. Qualcosa, anzi molto, resta sempre fuori da una filiera del valore di 3600 miliardi, poiché in realtà è più facile dire cosa non sia digitale rispetto a cosa lo è, in una società che al 75%, direttamente ed indirettamente, non è materiale, ma impalpabile come l’economia digitale e dei servizi implicitamente connessi. Malgrado il periodo di crisi finanziaria, gli indebitati Usa, hanno aggredito l’enorme mercato digitale mondiale, in crescita anche per quest’anno per più del 5% con una partnership completa con gli asiatici, sia di filiera che di capitali. Sul mercato interno hanno lasciato che una naturale selezione formasse delle telco giganti (AT&T, Verizon, Sprint, ultimamente divenuta giapponese, T-Mobile,.Comcast e Time Warner Cable), per non parlare della annosa questione della posizione dominante di Microsoft e Apple nell’IT; non hanno badato alle naturali esistenze di digital divide nelle aree più povere, né ai consumatori ed oggi si ritrovano con un 4G operativo già da un lustro.
Il fronte asioUsa presenta una decina di centri monopolistici, capaci di raggiungere qualunque utente mondiale dotato di moneta sull’intera domanda dal metal Ict agli apparati di comunicazione, dall’hardware a Ict, Telco, Call Center, dai Media ai Servizi fino a quelli di prossimità. Il monopolio, compreso il governo unilaterale di Internet di Icaan, non è proprio in linea con il libero mercato. Per vincere si fa qualunque cosa, però, anche farsi appoggiare da burocrati nazionali stranieri che fautori della libertà del web, sostengono il primato delle università ed aziende private Usa sui propri parlamenti.Le prime 20 società mondiali IT e Tlc hanno 3,7 milioni di lavoratori, sulle quali poco peso hanno i 3mila dipendenti Facebook, i 900 di Twitter, gli 800 di Linkedin e gli stessi 30mila di Google. I lavoratori europei Tlc ed IT sono 2,4 milioni, in calo dal 2009. La filiera più ampia ne raccoglie 8 milioni, il 3,5% del totale del lavoro europeo. 3,5% di lavoro contro 75% dei servizi: questo è il miracolo prodotto dalla tecnologia che non premia però il lavoro ma solo la concentrazione, tanto che gli stipendi Ict tendono a diminuire. Il numero dei lavoratori tiene perché dalla Scandinavia ad Olanda, Francia e Germania il nocciolo poprietario è restato tutto o in parte pubblico. Con il turnover e la riduzione a pura distribuzione commerciale, lavoro e know how europei sono destinati a cadere ulteriormente, comprimendo anche gli interessi degli azionisti. Probabilmente i consumatori ne avranno un vantaggio ed infatti i prezzi europei sono migliori di quelli Usa.
L’altra faccia della medaglia è il depauperamento del controllo di offerta digitale e la divisione parcellizzata di milioni di lavoratori tra autonomi, negozi, dipendenti pubblici e privati, assolutamente senza voce. I nostri due si sarano detti che senza telco l’Agenda 2020 resta un libro di sogni; che 57 miliardi del VII programma quadro sono uno spreco con una rimessa italiana del 5% tra dare ed avere, che la riduzione dei costi delle nuove reti è un pannicello caldo e che con i soldi di tanti bandi europei si realizzerebbe subito la fibra ottica europea ed il diritto universale Internet ad almeno 500k. Difficile che si siano chiesti quale sia il senso del Regolatorio che garantisce tutti (operatori, consumatori, investitori, ricercatori), tranne i produttori, L’ultima grande Authority, l’Agcom, subissata dalle critiche dopo l’uscita di Calabrò, è chiamata a interpretare un nuovo scenario, successivo all’era della liberalizzazione. Lo scenario non proibizionista, ad esempio, dove l’accesso alla rete deve costare di più perché significa l’automatico fruire di una serie di servizi ed oggetti digitali.
Nell’era della sopravvivenza non ci sono alternative ad un maggiore controllo sull’ intereconomia rispetto all’intraeconomia. Altrimenti è inutile vantare 680 miliardi verso i 3600 o 8 milioni di lavoratori (3,5%) rispetto al lavoro digitale che vale il 16% dei servizi. Bisogna regolare le tante altre sigle che a nome dei datori e dell Università avanzano proposte e Manifesti sul futuro digitale, come Coalizione digitale, alleanza per Internet , Isoc, Internet Governance Forum, Stati generali dell’Innovazione, Assinform, Assintel, Assinter, Confindustria Digitale, Servizi Tecnologici. Dovrebbe parlare, e con un ruolo solo, chi prende le responsabilità di firma. C’è da regolare l’evidente sproporzione tra economia e lavoro digitali. C’è da considerare la voce dei lavoratori digitali, che sono l’unico patrimonio del sogno Ict dell’Europa di Delors. Un regolatore unico europeo potrebbe farlo a patto di nascere con un consiglio di sorveglianza interno.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:51