La questione burocratica

Il ministro per la Funzione pubblica, come si chiama il ministro che dovrebbe far funzionare gli uffici mantenuti dai soldi erariali, è di fatto un ossimoro. Sta lì ad inventare soluzioni forse non del tutto inutili, ma in sostanza poco più che palliativi. È abbastanza umoristico istituire un ministero per riformare i ministeri. Eppure da trent’anni a questa parte il posto è regolarmente occupato. Con supremo sprezzo del ridicolo. I risultati attesi gl’Italiani li stanno attendendo. La burocrazia è una mostruosa tenia. Più la tagli, più ricresce. Obbedisce al proprio codice genetico: rallentare, ostacolare, impedire. Quando si pronunciano giudizi del genere, che gli amministrati condividono, insorgono i sindacati e i politici che rappresentano il pubblico impiego. Le tessere e i voti contano. La verità dovrebbe contare di più. Invece fa solo capolino. Tant’è che tali ministri hanno finito invariabilmente per diventare ministri “della” anziché “per” la funzione pubblica. Fagocitati dalla malattia che avrebbero dovuto debellare. Effettuare il controllo dell’entrata e dell’uscita dal lavoro o imporre un cartellino di riconoscimento sono compiti da modesto capufficio. Non richiedono l’intervento d’un ministro, che, se vi si dedica, certifica la propria nullità. Il ministro dovrebbe essere una sorta di pubblico ministero contro le disfunzioni burocratiche ovvero un difensore civico dei cittadini di fronte agli apparati pubblici. Tutte le garanzie legali apprestate per la protezione degli impiegati pubblici non devono trasformarsi in privilegio. La Costituzione prescrive all’articolo 98 che essi siano “al servizio esclusivo della Nazione”. Il che significa che viene loro proibito di lavorare per se stessi e di non lavorare. Orbene, tre sono gli stimoli basilari quando uno lavora: il senso del dovere, gli incentivi a migliorarsi, le sanzioni dei divieti. Il primo dovrebbe essere sviluppato dal contesto sociale, sia interno che esterno all’ambiente di lavoro. Il secondo dovrebbe contemplare premi giusti, cioè ottenuti con procedure prestabilite, trasparenti, selettive. Il terzo dovrebbe contemplare punizioni efficaci e rapide, irrogate mediante un procedimento di norma pubblico. Al contrario, il pubblico impiego è per antonomasia “il posto”, inteso come “posto fisso”, perché il licenziamento è quasi impossibile e lo stipendio è assicurato, accada quel che accada. E’ davvero un paradosso che proprio lo Stato non possa togliere ad un immeritevole suo servitore il lavoro assegnatogli e che debba rimanere assoggettato al suo stesso dipendente. Qui è il fulcro della questione burocratica. I ministri competenti si guardano bene dall’affrontarlo. Ma anche per migliorare le cose più semplici ed elementari fanno poco ed ottengono nulla. Le pubbliche amministrazioni trattano i cittadini senza usare la dovuta cortesia, due volte dovuta. Non rispondono alle lettere se non legalmente costrettevi. La posta elettronica è quasi sconosciuta, perfino la posta certificata. Lo sportello pubblico si rivela un luogo di vessazioni. Occorre forse un ministro, una legge, un tribunale per instaurare la buona educazione nel pubblico impiego?

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 10:52