Sacerdoti dell'equità e malessere sostenibile

Per alcuni decenni fu di moda essere poveri. Sembra incredibile, ma è così. I poveri portavano in giro la loro miseria, con un certo orgoglio, con una qual certa consapevolezza (magari imparata a pappagallo) di essere vittime di un meccanismo crudele, con coscienza di essere un gruppo di vittime destinate a venir risarcite. Oggi si direbbe una comunità; allora si diceva classe. Erano i tempi de "La classe operaia va in paradiso". I ricchi, parallelamente, non potendo smettere di essere tali, si vergognavano di essere se stessi. Lo dimostravano, cercano di vestirsi e comportarsi da poveri. Essendo ricchi, la loro versione di miseria era molto confortevole, edulcorata, rarefatta. Comunque i poveri, un po’ come gli afroamericani verso i bianchi, non facevano altro che rinfacciare ai ricchi tutte le repressioni subite.

L’uguaglianza sembrava un’ideale comune e facilitava il mescolarsi di ricchi e poveri come mai prima era avvenuto. Quel periodo migliorò le condizioni sociali medie, distrusse la Borsa, affossò l’economia dando il via al debito pubblico attuale. Da alcuni decenni è di moda essere ricchi. Non lo si vuol dire chiaramente, ma è così. I poveri fanno finta di essere ricchi, cercano di imitarne i tic, i modelli, i simboli ma ne restano comunque distanti. Perché, nel frattempo, i ricchi sono scomparsi. Grazie alla potenza dei mezzi e delle tecnologie, riescono a vivere appartati in una propria serie di Olimpi; vivono nell’alto dei cieli, a largo nei mari, in terre paradisiache ed in paradisi fiscali ed in castelletti atticati nascosti e ben difesi. Tutto questo è avvenuto per mode, trend, passaggi culturali a prescindere dalle crisi o dai boom economici. Si voleva essere e\o apparire poveri nel boom, nella crisi, nella ripresa economica; si voleva e si vuole e\o apparire essere ricchi nella crisi, nella ripresa, nelle due attuali crisi succedutesi tra 2009 e l’oggi. L’economia non c’entra: è il lato culturale, da essa inseperabile, della vita economica. La lettura dei maitre a penser, purtroppo, è tutta sbagliata, come dimostra l’ultimo lavoro di Cnel ed Istat.

Né sarebbe stato diverso fosse stata affrontata dal Censis o da qualche altra fondazione. Sbagliata perchè ipocrita, poiché le parole non corrispondono ai fatti e sbagliata perché, come sempre, antieconomica, figlia di quell’idealismo che odia lo sviluppo e lo sente nemico della cultura. L’errore comincia dal titoto: "Benessere equo e sostenibile". Cosa è il benessere? Uno stato in parte assolutamente materiale ed in parte assolutamente psicologico individuale. Salute, ampia alimentazione, soddisfazione sessuale, strumenti culturali e mezzi economici per una completa socializzazione, contesto geonazionale che permette realizzazione di capacità professionali, armonia familiare sono elementi che lo compongono. A seconda dei periodi, questi non hanno dato necessariamente benessere ai ricchi che volevano essere poveri, né l’hanno dato ai poveri che vogliono essere ricchi. Perché il benessere dovrebbe essere equo? Oppure sostenibile? In quanto parte del vissuto individuale, il benessere è o non è: l’equità non c’entra. Non è vero che se si è tutti equamente poveri, si ha benessere . Fintanto che si ha salute, non la si percepisce come fattore di benessere; anzi, sapere che si pagano profumatamente le spese sanitarie altrui, induce malessere, né serve la consolazione della sostenibilità.

L’equità, prima, significava un livellamento egualitario verso il basso. Con l’intreccio di radical chic e bocconiani, ha assunto il senso di variare equamentee le percentuali di benessere già esistenti, trasformando la mobilità sociale in una serie di caste inamovibili. Dunque come Cnel e Istat hanno misurato questo benessere morale? Con diversi indicatori. La qualità dei servizi disponibili di acqua, luce, gas, telefonia, che più facilmente si gode nei capoluoghi di provincia. Perché allora è forte l’inurbazione verso le poche metropoli? Al benessere del 99% la ricerca è indifferente, né importa che sia italiano l’ottenimento della massima velocità Internet. Tutti sanno che la diffusione Internet non dipende dalla scoperta ma dalla commercializzazione. Ridicolo, intellettualistico ed ideologico accostare benessere e la presenza di aree marine protette, o l’acqua corrente che malgrado le demagogie, è cosa scontata. Neanche un punto per la facilitazione di produrre cultura. Una mentalità da vecchi privilegia solo il paesaggio. Sottolineata la paura femminile di violenze e la maniacale voglia di manette che ha condotto ai più alti tassi di carcerazione mai visti. Chissà perché più donne nei Cda o nelle istituzioni dovrebbero dare benessere? Antipatia e simpatia esulano da statistica e lavoro. Quanto all’istruzione, l’artigiano con la terza media esportatore di mobili sta forse meglio di tanti laureati della comunicazione non raccomandati. Niente da fare: il benessere è solo economico. E in quanto tale non è detto dia la felicità. Per questa, rileggersi ruolo ed elites di Mosca e Pareto. La felicità, per la natura peccaminosa umana, è ricerca di potere; se la società in cui si vive lo cerca. Se vi ha rinunciato, resta solo un benessere castrato, insostenibile ed ingiusto. Ed i suoi sacerdoti necrofili.

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 11:11