L'economia? Non ha colore

Sono 20 anni che ascoltiamo di Berlusconi, del Berlusconismo. Narrazioni sull’origine del successo economico negli anni ‘70 e ‘80 in collusione con la mafia, tramite il fido Dell’Utri che in contropartita ha chiesto un posto come giardiniere per un pericoloso mafioso nella villa del Cavaliere. Ci raccontano che baratta i voti, comprando deputati e senatori, che è un corrotto e un corruttore, che favorisce la prostituzione delle minorenni, che offende le donne perché paga le prostitute, perché falsa i bilanci e non paga le imposte e le tasse. Parlano, con tono severo, Saviano, Travaglio, Moretti, Celentano, la Parietti, Fazio, il nobel Dario Fo. Interviene con pesantezza niente meno che l’ex direttore dell’Economist, con un documentario. Un nutrito esercito di integerrimi Magistrati si è cimentato per condannarlo. Gli avversari politici lo accusano di non poter rappresentare l’Italia all’estero, di aver screditato il popolo italiano nei consessi internazionali. Si è levato il grido della piazza più seria contro di lui, decretando la fine del Berlusconismo e la nascita del cambiamento.

Anche gran parte del mondo imprenditoriale gli è contraria. Non c’è avversario che sia disposto ad allearsi (horror). Eppure nel sistema definito democratico, con la Costituzione più bella del mondo, Berlusconi vince (o non perde) contro tutti (anche contro alcuni del suo stesso partito). Hanno detto che viene eletto perché proprietario di televisioni. Ma le sue televisioni commerciali non hanno interesse a mandare in onda programmi politici poco visti (senza pubblicità non si campa), mentre la TV pubblica ci bombarda con programmi politici, quasi tutti contrari al Berlusca. Ma Berlusconi è aiutato dalla legge elettorale che si è fatto. Quando il “porcellum” non c’era Berlusconi ha vinto lo stesso. Sì, ma ha vinto perché non è stata varata la legge sul conflitto di interessi. Si circonda di personaggi impresentabili, inadeguati, mezze figure e la gente lo vota lo stesso. Nei partiti avversi figurano personaggi di alto lignaggio politico, figure di altissimo valore, quelle belle persone che fanno grande un partito, un movimento, un sindacato e gli italiani votano per Berlusconi.

 

Giornalisti di chiara fama, anchorman a lunga permanenza, traditori in libera uscita, opinionisti di regime, un esercito di attori, cantanti, registi, scrittori a bassa tiratura, lanciano strali all’indirizzo del Cavaliere, definendolo il meglio del peggio. E’ stato denunciato dalla moglie Veronica con una lettera a “La Repubblica”, che subito partecipa al torneo “mignotte Tv” e manda in campo il suo campione. Niente meno che il vicedirettore Massimo Giannini. Il campo di gioco più neutro non si può: la trasmissione “Ballarò”. L’ultimo strappo, atto di forza, tecnicamente eversivo e politicamente distruttivo, la trentottesima legge ad personam dell’età berlusconiana, queste le ricorrenti parole d’ordine dei potenti formatori della pubblica opinione. Al centro dei comizianti primeggia ancora lui il vicedirettore del quotidiano “La Repubblica”, al secolo Massimo Giannini, un nome una garanzia di stolte parzialità, di impertinente ignoranza, di oltraggiosa povertà, che ci ripete stancamente che la legge è uguale per tutti, oltre ad illuminarci sulla prescrizione.

Ma non sarà che criticare l’avversario, demolirlo mediaticamente, tallonarlo con processi a catena, tentare di distruggerlo con ogni mezzo consentito sia nascondere l’incapacità di conquistare il consenso degli italiani, che sono maturi ed intelligenti quando votano contro il Cavaliere e non lo sono quando lo votano? Non c’è una questione, un tema, un problema sul quale gli altri abbiano detto o proposto una soluzione efficace, efficiente, realizzabile, equilibrata, compatibile con i mezzi a disposizione: lavoro, sicurezza, giustizia, sanità, trasporti, commercio, industria, agricoltura, scuola, educazione, ricerca, innovazione, benessere, libertà d’impresa, cultura, turismo etc.

Non è una azienda in perdita, non inquina, vende bene, indici di qualità al massimo, professionalità da far invidia all’estero, ma la Bridgestone comunica la decisione di chiudere nel 2014 lo stabilimento di produzione di Bari. I lavoratori ritengono che le motivazioni societarie e padronali siano la solita invenzione per spendere meno e guadagnare di più. La Bridgestone delocalizza, va in Polonia, in Thailandia, nel Tibet; chi può impedirlo? Nessuno. Chi deve risolvere il problema del lavoro dei giovani e meno giovani? Questi, quelli, quelli che verranno? Facce nuove, facce pulite? Quelli bravi, quelli somari? Quelli inquisiti, quelli non inquisiti, poi inquisiti? Quelli che hanno idee, idee nuove, idee vecchie che vanno bene? Quelli che hanno un programma credibile, quelli degli 8 punti, dei 2 punti e via alle elezioni? Quelli con un elenco di buone intenzioni, di belle prospettive per la crescita e lo sviluppo? Quelli che dichiarano mai un ritorno al passato (tautologico al passato non si può tornare)? Quelli che disprezzano l’altro e si autodefiniscono i migliori?

La disperazione sale d’intensità, ma si coltiva una nuova illusione in un movimento, in un gruppo di esperti, in un personaggio eccellente, in un uomo carismatico. L’illusione fatalmente porta ad una nuova disillusione. Una nuova agenda, una diversa agenda, una agenda fattibile, praticabile, eseguibile. E la tragedia si ripete e si moltiplica. Ed allora? La scelta è nel metodo non nelle persone, che pure contano. Il metodo per l’agire politico che comporta due scelte: l’abbandono del “dovrebbe essere” (occorrerebbe, bisognerebbe) ed il ricorso al “come è”, alla realtà dei fenomeni e dei problemi così come si presentano. La seconda scelta consiste nel porre alla base dell’agire politico il sistema, che si nutre degli elementi che lo compongono e della forza dei sottosistemi e subisce il condizionamento delle aggregazioni politiche e sociali, dei vincoli delle norme che si generano al suo interno. L’operatore politico deve saper calibrare il volume e la dimensione dell’intervento per mantenere il sistema in equilibrio dinamico. L’agenda Monti come le altre che hanno seguito costituiscono un elenco di buone intenzioni, che ripetono l’errore del “dovrebbe essere” , mentre va privilegiato il metodo. Si potrebbe sintetizzare, No al “dovrebbe essere”, Sì al “come è”, secondo il principio che le colpe e le debolezze degli uomini possono attenuare quelle del sistema, ma non le escludono né le riducono a misura trascurabile.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:49