“Ri-Fare”, ma stavolta senza settarismi

Era il 9 febbraio quando Fare per Fermare il Declino riuscì a portare all’Antimeeting di Milano circa 4000 persone, mentre altre 30.000 erano collegate in streaming via internet. Sono passate appena tre settimane, ma sembra passata un’era geologica. A quattro giorni dalle elezioni, il leader di Fare Oscar Giannino era costretto a dimettersi, per il noto scandalo delle lauree e del master inventati, lasciando la chiusura della campagna elettorale alla giovane Silvia Enrico, sconosciuta ai più. Il voto, come ormai era prevedibile, non è andato bene. Fare ha ottenuto l’1,1% dei voti per la Camera, con punte del 2% al Nord e percentuali molto basse a Sud. Il giovane movimento è rimasto lontano dallo sbarramento del 4%, necessario per accedere alla ripartizione dei seggi per chi corresse fuori dalle alleanze, e ha fallito anche l’obiettivo che alla viglia appariva il più perseguibile, cioè l’ingresso al Consiglio Regionale della Lombardia. Il peggio, forse, doveva ancora venire. Nella riunione della Direzione del 27 febbraio si consumava infatti una rottura drammatica tra l’ala che si rifà alla coordinatrice Silvia Enrico e quella più vicina a Michele Boldrin.

Quest’ultimo lasciava polemicamente il partito, ma anche la Enrico, il giorno successivo, rimetteva le deleghe ritenendo insostenibili le condizioni che si erano venute a creare. Il 1º marzo, un comunicato congiunto dei maggiori esponenti del partito annunciava che si sarebbe proceduti a una separazione consensuale di Fare in due distinte entità politico-organizzative, anche se a oggi sono ancora in atto negoziati che potrebbero addivenire a un percorso condiviso che salvaguardi l’unità del movimento. Insomma un pasticciaccio brutto, che lascia increduli e sgomenti la maggior parte dei militanti, con il lavoro di mesi di tante persone cancellato da dinamiche impazzite a livello della leadership nazionale. Un partito che, solo pochi giorni fa, indipendentemente dall’approdo in Parlamento, pareva destinato ad accreditarsi come un concreto player nel prossimo scenario politico, in questo momento sembra purtroppo avviato a una fine ingloriosa. Se i prossimi passaggi del movimento avranno solamente il sapore di una resa dei conti interna, questo potrà soddisfare la vanità di qualche dirigente, in particolare di chi alla fine riuscirà ad aggiudicarsi la titolarità del brand, ma sanciranno verosimilmente l’allontanamento della maggior parte degli aderenti.

Il rischio è quello di quello di entrare nelle dinamiche grottesche che caratterizzano quei movimenti che si condannano all’irrilevanza, quelle dei liberali di De Luca, dei partitini socialisti di De Michelis e dei figli di Craxi, delle tante rifondazioni missine o dei gruppi trotskisti – quelle dinamiche fatte di espulsioni, di microscissioni, di querele e di riti irrilevanti di pseudodemocrazia interna. Chi si è avvicinato nel tempo a Fare per Fermare il Declino perché attratto dalla freschezza delle idee e dei programmi, da una certa visione dell’Italia e dal modo diverso di proporsi, rispetto agli altri partiti, difficilmente si riconoscerà in un soggetto politico che si faccia risucchiare nella peggior politique politicienne. Sarebbe un vero peccato che il patrimonio umano e politico di Fare fosse disperso, ma l’unica possibilità realistica di rilanciare Fare passa da una nuova fase che restituisca respiro all’iniziativa politica. In particolare quello che è necessario è la capacità di dismettere alcuni dei “preservativi mentali” che hanno in gran parte condizionato la nascita e lo sviluppo del movimento.

In effetti, uno dei principali errori compiuti da Oscar Giannino, da Michele Boldrin e dagli altri leader di Fare per Fermare il Declino è stato quello di aver aggregato il movimento attorno a un concetto di autosufficienza, rifiutando la contaminazione con chiunque appartenesse alla classe politica della Seconda Repubblica. Fin dall’inizio, nel movimento è prevalso un approccio molto settario. La sensazione è che Fermare il Declino abbia puntato eccessivamente sull’idea di squalificare gli altri in termini innanzitutto “morali”. Da qui è nata la pregiudiziale antiberlusconiana, che poi si è estesa nel tempo al Terzo Polo, a Italia Futura, a Monti, fino a “bruciare” qualsiasi possibile alleanza elettorale. Parimenti si è rifiutato qualsiasi vero dialogo con le esperienze liberali preesistenti che pure, tra i demeriti, hanno avuto anche qualche merito, ad esempio quello di aver provato a fare iniziativa politica – sia pur di testimonianza – anche ben prima che Giannino, Boldrin o Zingales scendessero in campo.

Per molti versi, è stato proprio un certo intrinseco giacobinismo che ha generato i presupposti che hanno condotto Fare al collasso. Come ammoniva Nenni, “a fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura” – e purtroppo Fermare il Declino è finita proprio in una gara a chi è più puro. È così che il partito è arrivato al “suicidio assistito” del suo leader a pochi giorni dalle elezioni e nel giro di pochi giorni ha silurato tutto il resto della propria dirigenza, attraverso dinamiche surreali e autodivoranti che, in men che non si dica, hanno condotto organismi transitori a essere già visti come “casta” da abbattere. Peraltro, quello che rende perplessi è che la ricerca della “purezza” ha riguardato più le persone di quanto abbia riguardato gli effettivi contenuti politici. Nei fatti l’agenda di Fare si colloca nel solco del liberalismo, ma non sembra certo uscita dal Cato Institute. Si tratta di un programma piuttosto moderato, in qualche parte persino discutibile dal punto di vista della “coerenza ideologica”. Forse sarebbe stato più utile il contrario: più “durezza” nei programmi e al tempo stesso maggiore apertura a livello di esperienze e di storie.

In definitiva, Fare può ripartire solo è disposta ad aprirsi e a contaminarsi per creare un soggetto politico plurale e inclusivo, dove il discrimine sia posto dalla condivisione di un’impostazione liberale, non dalle appartenenze pregresse. Solo così si potrà dare vita a un movimento che possa durare nel tempo e dare rappresentanza a un’area di elettorato che è sottorappresentata. Qualcosa resterà in ogni caso perché la campagna di Fare per Fermare il Declino ha dimostrato – forse per la prima volta – che è possibile per dei liberali darsi un’organizzazione e provare a costruire un progetto che trae la sua forza non solamente dalle idee, ma anche dai numeri (più di 70mila aderenti e 1,3 milioni di euro raccolti). È un dato politico molto importante, ma insufficiente. Quello che servirà per il futuro sarà la capacità di mobilitare simili energie con più compagni di squadra e in un campo da gioco più grande.

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 11:05