Si può dimettere il Papa?

La dottrina canonica concorda, in modo unanime, su due questioni che attengono al profilo ontologico dell'ordinamento della Chiesa. (valgano, in proposito, G. Feliciani, "Le basi del diritto canonico", Il Mulino e C. Cardia, "Il governo della Chiesa", Il Mulino). Da un lato, il diritto divino vigente, sia quello positivo che quello naturale, si atteggia inequivocabilmente come diritto rivelato da Dio. Dall'altro, il ministero petrino costituisce, anch'esso, un "munus", un ufficio conferito direttamente da Cristo, figlio di Dio, in quanto lo speciale carisma che investe il Papa deriva dall'assistenza dello Spirito Santo. Da ciò si desume che il fondamento giuridico dell'elezione papale può essere rinvenuto solo nella volontà divina di Cristo, e non dalla Chiesa o da un qualsiasi suo organo. La conferente "plenitudo potestatis" di un Papa, di conseguenza, procede per derivazione da Cristo e si incorpora in ogni successore di Pietro.

Questo per significare che il collegio cardinalizio che materialmente provvede all'elezione di un determinato Pontefice non è altro che lo strumento umano di cui si serve Dio, con la discesa dello Spirito Santo, per indicare e designare il suo vice sulla terra. Come noto, il perfezionamento del procedimento di elezione si concreta con l'accettazione da parte del cardinale neoeletto, il quale potrebbe, in teoria, anche rifiutare il "munus". Una volta, tuttavia, che interviene la dichiarazione di volontà positiva dell'eligendo papa, questi è investito "pleno iure" dall'afflato mistico che proviene da Dio ed è chiamato ad esercitare questo sommo ministero, di regola, per sempre, "usque ad mortem".

Per qualificare al meglio la condizione del Santo Padre, ci soccorre una definizione data da Paolo VI a Jean Guitton: "Il papato non è una funzione, si dimissiona forse dalla paternità?" In tale affermazione, in effetti, si concentra il nodo teologico essenziale sotteso all'ufficio di Pietro: il Papa non costituisce una mera funzione (come, ad esempio, possono esserlo quella del Vescovo di Roma, o, nel mondo laico, quella di Presidente della Repubblica o di "top manager" di una multinazionale), bensì uno "status". Il suo ruolo, detto diversamente, non è configurabile in senso funzionale, ma come situazione giuridica a sé stante, tipica di uno "status", in questo caso, di natura sacra, e, quindi, in quanto tale, inalienabile e immodificabile. Al riguardo, valgano alcune elementari analogie: un figlio non può abdicare dal suo "status", anche se dovesse rompere per sempre i legami o i contatti con i propri genitori; similmente, un padre o una madre non potrebbero mai dimettersi dal loro "status" paterno o materno, anche se decidessero di ripudiare "de facto" la loro prole. Con ciò si desume che il "munus" papale è indisponibile, dal punto di vista teologico.

Non può rientrare nella disponibilità del Santo Padre, infatti, di modificare, negoziare o rivedere il suo "status", anche perché, essendo egli, oltre che successore di Pietro, anche vicario di Cristo, cioè vice Dio, non può arrogarsi la potestà di "convenire" o "concordare" con lo stesso Dio una eventuale modificazione della sua condizione. Come si usa dire "semel abbas, semper abbas", nel senso che, come ripetono concordemente i maggiori cultori del diritto canonico (uno tra tutti, Moneta, Introduzione al diritto canonico, Giappichelli), "l'investitura sacramentale che immette nello stato clericale è indelebile e insopprimibile", anche se può subire modifiche di carattere amministrativo, con decisione delle gerarchie ecclesiastiche. Questo perché, giova sottolinearlo ulteriormente, l'intera struttura ecclesiale ha un fondamento eminentemente carismatico, e il carisma deve necessariamente configurarsi come un principio non democratico, ma pneumatico: espressione, cioè, di un'autorità che viene "dall'alto" e non dal basso.

Tali constatazioni, vere per i membri del clero, lo sono "a fortiori" per il Papa, che riceve, con l'investitura divina, una sacertà e uno stato spirituale del tutto peculiare, come attestato dalla costituzione teologica e dalla tradizione millenaria della Chiesa. Alcuni (tra questi , si consideri Gherro, "Diritto canonico", Cedam) sono arrivati a giustificare la legittimità di un eventuale atto di dimissioni dall'ufficio, additando il canone 332,2 del Codice canonico del 1983, il quale prevede espressamente l'opzione della rinuncia, a determinate condizioni. Costoro argomentano che "se l'assunzione del «munus» si concretizza con l'accettazione, e dipende, dunque, dalla volontà di chi è eletto in conclave, risulta evidente come da questa stessa volontà possa derivare la rinuncia al «munus» medesimo". Secondo questo punto di vista, in sostanza, è sufficiente, per annullare la previa dichiarazione di volontà volta ad accettare l'incarico papale, una successiva dichiarazione di segno eguale e contrario. Ma questa argomentazione contiene evidenti palinodie. Ad essa si può agevolmente obiettare, in effetti, che non è possibile equiparare le due manifestazioni di volontà: la qualificazione giuridica dell'accettazione, infatti, promana da un soggetto non ancora investito dal crisma divino, trattandosi di un cardinale neoeletto, mentre la ipotizzata dichiarazione di rinuncia è in capo al Papa, ossia a qualcuno che ha già la "plenitudo potestatis" e che è già indissolubilmente legato da un vincolo sacrale con il Corpo mistico della Chiesa.

I suddetti propugnatori dell'ammissibilità della rinuncia quale fattispecie suscettibile di vanificare la "vis" dell'accettazione potrebbero, ad un certo punto, controdedurre che non si può prescindere da una norma appositamente prevista dal codice canonico. Anche qui, però, si può controargomentare con facilità che il mentovato canone è stato previsto (peraltro, con formulazione più circoscritta, anche nel codice del 1917), semplicemente come caso accademico, ipotesi di scuola, visto che l'ultimo episodio di abbandono delle carica si è verificato 600 anni fà. Non solo. In questo specifico frangente, è del tutto plausibile supporre che la norma risulti "anticostituzionale", ossia in contrasto con il diritto divino che permea tutta l'intelaiatura giuridica della Chiesa, il quale rappresenta, "mutatis mutandis", l'equivalente delle norme costituzionali degli ordinamenti statuali. Infatti la nota circostanza per cui il sistema giuridico ecclesiale non prevede un organo di controllo della legittimità delle norme ordinarie, come negli Stati, non può che avvalorare ulteriormente la nostra congettura: il canone 332,2 si configura, evidentemente, come una statuizione "derelicta" e "contra constitutionem", che, insieme ad altre sicuramente presenti in quell'ordinamento, non è stato possibile espungere in quanto in contrasto con il diritto divino, semplicemente perché non esistono né organi né procedure che lo permettano. (*) Consigliere parlamentare Capo Ufficio di Segreteria della Commissione Politiche dell'Unione europea al Senato della Repubblica

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 11:05