
Alla Camera si è registrata una partecipazione al voto del 75,17%, rispetto all’80,50% del 2008 (un calo di 5,33 punti percentuali). Mentre al Senato l’affluenza è stata pari al 75,19% in calo dall’80,46% di cinque anni fa. Alla Camera il partito degli astenuti con il 24,83% è terzo dopo il M5S di Grillo, al 25,55% ed il Pd al 25,42%. Al Senato con il 24,81% è secondo al Pd (27,43%) precedendo i grillini (23,8%). Il partito dell’assenza e della protesta dunque tocca la maggioranza vera alla Camera (50,38%) e relativa al Senato (48,6%). Nessuna migliore risposta poteva essere data dall’elettorato alla strana maggioranza di grande coalizione che ha governato il paese nel 2012, e che lo ha disastrato, portando il Pil da un misero meno 0,6 al crollo del meno 2,2. Dal punto di vista degli artefici del governo Napolitano-Monti, è stato un errore, dunque, non chiudere la partita, dopo la cacciata con mezzi extraparlamentari di Berlusconi da Palazzo Chigi, indicendo immediate elezioni a fine 2011, che avrebbero dato al Pd un risultato migliore.
È stata la reiterazione di un errore, già avutosi negli anni ’90 quando la Presidenza della Repubblica cercò continuamente di rimandare le elezioni, finché le condizioni non fossero state favorevoli al centrosx. La continua delegittimazione del centrodx, nei due anni ora trascorsi, puntava, oltre alla diminuitio numerica, a spaccare questo schieramento, innanzitutto tra una destra storica “pulita”, contrapposta ad un Pdl corrotto; e poi a frammentare quest’ultimo in una serie di schegge, più o meno urlanti l’una contro l’altra in nome dell’onestà e dell’efficacia. Così, nel 2012, si è assistito alla piena strategia dei primi scissionisti del centrodx originario, gli ex leader Msi e Dc Fini e Casini; poi all’attrattiva della scissione di Monti verso cui si è rivolta, in un primo tempo, gran parte della dirigenza ex forzista ed An; ed infine, per contraccolpo, sul fronte avverso, sono maturate ulteriori scissioni, dagli ex giovani missini dei Fratelli d’Italia, ai movimenti meridionalisti, fino a tre formazioni neofasciste. Tutto ciò mentre si rompeva, al nord, la più che decennale alleanza con la Lega e restava quella, provocata a suo tempo da Fini, con il partito identitario di destra di Storace. Queste scissioni e separazioni sono apparse a qualcuno necessarie per garantire la vittoria al centrosx, fermo da vent’anni al 30% dell’elettorato. Una quota di tutto rispetto, da un lato, ma impossibile da rimpinguare, fermo restando la pregiudiziale Pd criminalizzante l’avversario.
Nelle due ultime tornate elettorali il voto al Pd e dintorni è poi ulteriormente sceso. In queste elezioni la coalizione del centrosx è risultata vincente in discesa al 29,54%, mentre il Pd ha perso 4 milioni di voti, nonostante una lunghissima campagna sondaggista intellettualmente disonesta che ne ha raccontato un immaginario primato nel paese. Giannino da solo, oppure la somma di Casa Pound, Fiamma, Forza Nuova, Riformisti, Repubblicani e varie Leghe sarebbero stati sufficienti per la vittoria, oltre il 30%, al centrodx, arrivato al 29,18%. La prima considerazione che se ne trae è che, dunque non sia più ammissibile vedere al Quirinale un notabile, fiamma spenta di antiche idee ripudiate in enne giravolte; non è più possibile che il suo inquilino, anziché farsi garante di giustizia e difesa, complotti con alti notabilati interni ed esteri per circonvenire il popolo, che secondo la dottrina Scalfari, deve essere condotto, anche con l’inganno, al progressismo del pensiero unico. Del nuovo Parlamento, più giovane e femminile, non si dirà che è fatto di nominati, anche se, i 200 seggi regalati ai sinistri, lo sono molto più del 2008; ma anche questo è il segno della dilagante disonestà intellettuale. Le Camere rappresenteranno soprattutto una destra ed una sinistra cadauna da 10 milioni, oltre a 8 milioni di grillini. Potranno rifiutare i papabili Prodi, Amato, Letta, Draghi o gli sconci Fo e Celentano; ma potrebbero pensare a Muti, Versace, Del Vecchio. Un garante di popolo e di buon senso. Incredibilmente, il buon senso in parte ha prevalso.
La Lombardia, la regione meglio amministrata d’Italia, ha mantenuto, malgrado lo scandalismo, il suo passo. L’ondata delle manette, grottesca, liberticida, rodariana, falsa e bugiarda, dopo vent’anni di contorsioni sparisce con i suoi Di Pietro, Ingroja, Moretti, Dalla Chiesa, Fava, salotti, girotondi, carcerati. Un nuovo presidente dovrebbe mettere ordine nel terzo potere, ormai in guerra con il paese. Dovrebbe rinfrescare le idee agli uomini della massa giurisprudenziale, come Rodotà che ha elogiato il programma di governo messo su da varie associazioni in quel bel luogo di democrazia che è il Valle Occupato. Lo spieghi il nuovo presidente all’esimio, che le elezioni, numerose tenute nel paese, sostituiscono qualunque auto comitato; che i programmi degli uomini che con giochetti e cordate occupano tutti gli spazi mediatici, dal Corrierone a Sanremo, non valgono sul mandato basato sul voto; e che infine l’occupazione e l’uso di un luogo di vendita commerciale, fuori da ogni regola fiscale e sanitaria, sporca di illegalità non solo chi lo esalti ma chiunque ci vada. Anche perchè il conto finale non lo pagheranno i giustizialisti ma l’erario, cioè tutti noi. Se non ci sarà questo spirito nuovo, assenza e protesta cresceranno oltre ogni limite. Il gruppo spaurito e spaesato mandato da Grillo in Parlamento passerà i primi tempi a scoprire gli infiniti privilegi, a criticarli ed a goderne. Il profilo tipico dell’eletto M5S è di un verde orfano di Pecoraro e della guida sorniona Pci. Può fare di tutto, nel bene e nel male. Nella situazione attuale può essere un giusto pungolo. Il Pd, di primo acchito, non sembra averlo capito, pensando di appropriarsene, adottando qualche parola d’ordine. Quanto al centrodx, si è capito che la massa sgangherata di antiche policies messe insieme non vale più del 14% e che Berlusconi da solo vale l’altro 15%. Non è lontano il tempo in cui il Cavaliere non figurerà.
In questo lasso di tempo, tocca a chi si è messo fuori con snobismo e disprezzo, tornare dentro al carrozzone e costruire il Midas populista di contenuti precisi che cacci una nomenclatura ammuffita. Un esempio lo presenta l’idea di Maroni del governo federato di Torino, Milano e Venezia, impresa molto più destabilizzante di tanti ringhi bossiani. Può essere la destabilizzazione giusta per rimettere in corsa un’auto senza gomme. I vecchi An sono fuorigioco; la corte di Arcore trema ancora per il miracolo insperato; i comunisti rientrati e la destra storica montiana sono l’ombra di se stessi; il partito dei giudici è out come i sondaggisti; un terzo del Pd non ne può più dell’antiberlusconismo; dal Nord può venire un programma di traino generale. Presidente, media, giustizia, lavoro potrebbero avvicinarsi di più all’ideale populista. Non tutto è perduto. Lo fosse di nuovo, the next time potrebbe esserlo.
Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 11:18