Sinistre ombre sul Quirinale

Qualunque sia il risultato elettorale, a maggio il neoParlamento nominerà il successore dell’attuale Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. È ormai pratica comune parlare dei vent’anni di Berlusconi, come se avesse avuto in mano le istituzioni per due decenni. Proprio le occasioni di scelta del massimo rappresentante dimostrano che non è così. Gli anni ‘90, quelli di Mani Pulite, furono presieduti da Oscar Luigi Scalfaro (‘92-‘09) e Carlo Azeglio Ciampi (‘99-‘06). In quel periodo, la lunga opposizione del centrodestra italiano tuonò su governi costruiti su acrobazie parlamentari non rappresentative dell’opinione generale. A conferma di quella protesta, gli anni 2000 furono dominati elettoralmente dal centrodestra, tranne un’interruzione centrale grazie alla quale andò al Quirinale l’ex ministro ombra degli esteri del Pci.

Adesso la storia si ripete. Le elezioni 2013, dominate dalla presumibile vittoria del Pd, costringeranno a tornare presto alle urne, ma produrranno i numeri utili a un esponente del centrosinistra di divenire presidente. Il quarto di fila, per un periodo ininterrotto di quasi trent’anni (‘92-‘20). Se la pubblicistica di centrodestra fosse capace di coniare slogan ad effetto e farli condividere, sarebbe facile parlare di trent’anni di eversione. Gli accordi parlamentari, ai quali è oggi demandata la nomina del successore repubblicano del Re, hanno infatti, e avranno, l’effetto di difendere le istituzioni dal popolo elettore. In continuità con i precedenti, il nuovo presidente come massimo rappresentante del Csm, tutelerà l’irresponsabilità dei giudici e l’odierna macchina giurisprudenziale, assurda, stravagante, distruttiva; difenderà la posizione strategico-militare anche quando antistorica, inutile, dispendiosa, controproducente e distruttiva; garantirà la subordinazione ai vincoli europei senza una minima interattività; veglierà su opacità, sprechi e tentacolare controllo sociale della burocrazia pubblica.

L’ultimo Presidente della Repubblica, precedente al blocco sinistro fu Francesco Cossiga (‘85-‘92) che dovette lasciare in anticipo sotto la campagna di impeachment sollevata non solo dall’allora Pds, ex Pci. Sul finire del ‘91, la richiesta di messa in stato di accusa contro di lui fu presentata da La Rete (Leoluca Orlando, Diego Novelli, Nando Dalla Chiesa), da Rifondazione comunista (Lucio Magri, Lucio Libertini, Sergio Garavini, Giovanni Russo Spena), dai Radicali (Marco Pannella) e appunto dal Pds (Luciano Violante, Ugo Pecchioli). Una pagina che a tutti costoro non fa onore. L’attacco infondato a Cossiga, come già avvenuto per Giovanni Leone, testimoniò della spregiudicatezza irresponsabile sinistra anche in fatto istituzionale. Cossiga, cattolico, era seguito a Sandro Pertini, socialista, ma aveva costituito con quest’ultimo un blocco di continuità favorevole al cambiamento strutturale della politica.

Entrambi, uno per essere esponente del partito di Craxi, l’altro per condividerne l’azione dirigista, avevano stigmatizzato pesantemente il peso corruttore della macchina pubblica. Prima di Mani Pulite, la sinistra, nel suo complesso, aveva ottenuto l’accordo informale con la Dc sull’alternanza al Quirinale di un esponente del partito di maggioranza con uno più accetto al Pci. Era l’alternanza laico-cattolico (Einaudi-Gronchi; Segni-Saragat; Leone-Pertini). Teoricamente nel nuovo bipolarismo destra-sinistra si sarebbe dovuta verificare un’identica alternanza, avvenuta per esempio alla Presidenza della Camera (Scalfaro-Pivetti; Violante-Casini; Bertinotti-Fini) o al Senato (Spadolini- Scognamiglio; Mancini-Pera; Marini-Schifani). La nomina di un berlusconiano, un postfascista o un leghista al Quirinale fu accuratamente evitata per il timore di effetti deflagranti sugli equilibri di potere nella giustizia, negli esteri o nel quadro istituzionale. Deflagrazione, però, ampiamente voluta trasversalmente dagli elettori. La maggioranza vorrebbe rivedere il deficit democratico europeo, lo status della Nato, il potere della magistratura, le contraddizioni dello Stato sociale.

Nondimeno per paura di sé, il centrodestra non ha mai richiesto apertamente l’alternanza al Quirinale. Anzi, le poltrone dei suoi presidenti di Camera e Senato, naturali papabili all’incarico, hanno trasformato psicanaliticamente i sedenti, da Casini e Fini, passati dall’altra parte, a Scognamiglio e Pera, persisi per strada, per non parlare dell’incredibile Pivetti. Ora i bookmakers tengono il conto delle probabilità di Amato, D’Alema, Violante, Bindi, Prodi, Marini, Rodotà, Bonino, Monti, Casini. Il neoParlamento eleggerà sciaguratamente uno di questi. Poi andrà in crisi, come nel 2006. Qualcuno dirà missione compiuta, popolo gabbato quattro volte. Sull’altro versante Letta senior o Schifani hanno poche possibilità; Fini e Pisanu, se le hanno, le devono al fatto di essere divenuti nemici della propria parte.

Il centrodestra ha annacquato la riforma dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica in tante modifiche istituzionali, impossibili da ottenere tutte insieme e ne ha fatto una chimera; né per sua mentalità ricorrerà mai all’impeachment, meritato dagli ultimi inquilini quirinalizi. Come Scalfaro, sempre in guerra con il voto. L’ultimo complotto, l’invenzione di una destra da laboratorio che distruggesse quella vincitrice nelle urne, dati gli effetti voluti, ben pagati dagli italiani, dimostra che la conquista del Quirinale è vitale per il cambiamento necessario. Senza un nuovo Presidente picconatore, qualunque voto, anche il più protestatario, sarà inutile a cambiare le cose. Tanto vale ai neoparlamentari per non partecipare alla nuova elezione del Presidente ma testimoniare in nome dell’elezione diretta quanto mai necessaria.

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 11:08