Lavoro. Ci dovevano pensare loro

Il precedente governo, quando è arrivata la tempesta perfetta, si era impegnato nei confronti delle istituzione europee a riformare il mercato del lavoro, garantendo una maggiore flessibilità in entrata ed in uscita per favorire gli investimenti sia italiani che stranieri e di conseguenza la crescita, in un paese ingessato da decenni da una normativa, un sindacato ed una magistratura perennemente sulle barricate. L’impegno formale era una risposta alla famosa lettera della Bce che aveva sottolineato di attendere speranzosa la riforma delle riforme per ridare credito all’Italia. Sono arrivati loro ed hanno detto “ci pensiamo noi, solo noi siamo in grado di farlo, perché siamo bravi, perché siamo tecnici e non ci faremo intimidire e bloccare da veti politici e sindacali, noi rispondiamo solo a noi stessi”.

Il tutto è stato affidato alla esimia professoressa Fornero, fino a quel momento docente di economia e specializzata in previdenza, la quale prima si è dilettata nella riforma delle pensioni, che in teoria avrebbe dovuto essere la sua materia. Visto il disastro combinato sugli esodati, sorge il dubbio che le famose lacrime fossero per la consapevolezza appena acquisita che un conto è pontificare da una cattedra, un altro è tentare di metterlo in pratica, ma tant’è. Non contenta, si è dopo buttata sulla promessa e tanto attesa riforma del lavoro, a quanto pare non proprio la sua specializzazione, che dopo mesi di trattative, fughe indietro ed in avanti, colpi al cerchio, alla botte ed alla moglie ubriaca, ha visto la luce creando la notte. L’estenuante trattativa, peraltro, con fughe di notizie impazzite e contraddittorie, ha creato il panico negli imprenditori che hanno limitato le assunzioni ed aumentato le cessazioni dei rapporti, soprattutto a termine, proprio perché non avevano idea di cosa li avrebbe aspettati. D’altronde lei che insegna economia non si deve essere troppo preoccupata del fatto che l’incertezza della normativa per un’azienda è persino peggio della pessima normativa che ha partorito. Così, nel secondo trimestre 2012, quello di attesa della riforma sfornata a fine giugno, abbiamo le prime avvisaglie di cosa si prospetta (fonte: ministero del Lavoro):

Risultato 1: impennata delle cessazioni dei contratti a termine (+3,5% cessazioni dei contratti a tempo determinato e + 4% dei contratti di collaborazione). E per andare oltre le percentuali che spesso sono riduttive, l’analisi dei numeri reali è ancora più impietosa perché, a differenza di quanto si crede, i contratti a termine sono la netta maggioranza rispetto a quelli a tempo indeterminato, tant’è che il mancato rinnovo riguarda circa 2.000.000 di persone che hanno perso il lavoro su circa 2.500.000 di cessazioni totali. Non quisquilie.

Risultato 2: nel dubbio le imprese hanno ridotto le assunzioni sia a tempo indeterminato (-4%) sia determinato (-0,9%), sia le collaborazioni (-4,4%), sia per apprendistato (-13,1%), con un calo complessivo del 2,1%. Di nuovo, al di là delle percentuali, i contratti attivati in meno rispetto allo stesso periodo del 2011 sono oltre 60.000, di cui oltre 40.000 riguardano i contratti alternativi al tempo indeterminato. Non quisquilie. Una volta partorita la riforma, basta un minimo di senso pratico per capire che i numeri non possono che peggiorare. Malgrado il pomposo titolo “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”, tutto fa presumere che contribuisca piuttosto alla decrescita. Gli investitori italiani e stranieri chiedevano maggiore flessibilità in uscita, ma soprattutto più certezza e rapidità nella disciplina dei licenziamenti. La modifica dell’art. 18 scontenta tutti, ma proprio tutti, se non i magistrati a cui di fatto è stata data ancora maggiore discrezionalità nel decidere chi lavora e chi no, ma soprattutto come deve essere gestita un’azienda, entrando a gamba tesa nel merito delle scelte economiche degli imprenditori. Come se non bastasse, anziché rendere più snello il processo di impugnazione, si è aggiunto di fatto un quarto grado di giudizio, che non piace a nessuno e nessuno comprende bene come usarlo.

Risultato 1: la prima sentenza emessa post-riforma, ne ha fatto carne da macello e ha continuato a reintegrare come se nulla fosse.

Risultato 2: le linee guida che si sono dati i vari tribunali sulle modalità applicative del nuovo processo, variano da sede a sede, aggiungendo caos ad incertezza.

Non che le cose vadano meglio sul fronte della flessibilità in entrata. Anzi. Di nuovo, basta un po’ di senso pratico per capire che, se un contratto a tempo indeterminato continua a rimanere più vincolante di un matrimonio religioso, se il periodo di prova è limitato a pochi insufficienti mesi, è prevedibile e normale che gli imprenditori, che non hanno certezze sul proprio futuro e temono di legarsi mani e piedi a chi non è in grado di svolgere il lavoro richiesto, adottino forme alternative di lavoro, a termine o a collaborazione che sia, soprattutto quando l’apprendistato è limitato a giovani senza esperienza. Sia mai, però, che si comprendano le ragioni delle imprese in un Paese come l’Italia e così vai di lacci e lacciuoli per impedire in ogni modo di utilizzare questi contratti alternativi che, checché se ne dica, grazie alla legge Biagi avevano finalmente trovato una disciplina e dato modo di accrescere notevolmente l’occupazione. Perché tanto è inutile pretendere di ingerirsi nelle scelte di un imprenditore, obbligandolo ad assumere, perché gli resterà sempre la scelta fondamentale di chiudere l’azienda o trasferirla in un Paese meno imbrigliato, facendo allontanare proprio quegli investimenti e quella crescita che si dovevano invece attirare. E invece loro che sono tecnici hanno pensato bene di limitare in ogni modo la flessibilità in entrata, restringendo le ipotesi in cui si possono utilizzare, aumentando la contribuzione per i contratti alternativi ed imponendo per di più termini molto lunghi (60/90 giorni) tra un contratto a termine e l’altro con la stessa persona.

Risultato prevedibile 1: i maggiori contributi si tradurranno in stipendi netti inferiori per i lavoratori.

Risultato prevedibile 2: logica dell’Aua (avanti un altro) per cui, non potendo rinnovare il contratto al lavoratore a termine, già formato e magari pure bravo e volenteroso, se ne assume un altro e poi un altro e poi un altro. E non è una conseguenza da poco visto che anche solo i contratti che andranno in scadenza a fine anno sono circa 400.000 (fonte Data Giovani).

Risultato accertato 1: il tasso di disoccupazione è salito nel III trimestre 2012 al 10,6% dall’8,5% di un anno fa.

Risultato accertato 2: il tasso di disoccupazione dei giovani, i più interessati dai contratti a termine, è passato al 35% dal 30% di un anno fa (fonte Istat).

Un anno fa, quando sono arrivati loro, che sono bravi, che sono tecnici.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:33