Per il Popolo della libertà l’ultimo fine settimana avrebbe dovuto essere il momento delle primarie. Quelle annunciate dal segretario Angelino Alfano dopo un tormentato ufficio di presidenza del partito. Quelle da lui stesso difese strenuamente nonostante il parere contrario di Silvio Berlusconi. Quelle poi lasciate lentamente morire d’inedia dopo la ridiscesa in campo del Cavaliere e la fiducia fatta mancare al governo Monti.
Paradossalmente, nonostante tutto, forse è stato meglio così. Meglio per il Pdl. Meglio anche per il centrodestra, che al posto di primarie raffazzonate all’ultimo minuto, dal regolamento fumoso e con una sequela di candidati ai limiti dell’impresentabilità, si siano celebrati non uno, ma ben due convegni per decidere il futuro del partito. Il primo al teatro Olimpico, promosso da Alfano, dalla nomenklatura del partito e soprattutto da quei montiani del Pdl che sono raggelati nel sentire il segretario ribadire chiaramente che l’unico candidato per il Popolo della Libertà resta comunque Silvio Berlusconi. Il secondo all’Auditorium di via della Conciliazione, sul palco Giorgia Meloni e Guido Crosetto, e davanti una platea affamata di novità e in disperata attesa di qualcuno che gliele scodellasse davanti.
Doveva essere il giorno delle primarie vere, ed è stato un giorno di primarie sui generis. Il week-end appena trascorso, infatti, è servito a scavare un solco netto tra gli innovatori (folli o coraggiosi che li si voglia considerare) e i mandarini del partito. O perlomeno tra quei realisti consapevoli che la vecchia corazzata in grado di raggiungere il 38% alle elezioni del 2008 sta inesorabilmente affondando, e chi ancora si illude che Berlusconi sia rimasto lo stesso di 20 anni fa, e possa ancora giocare nel ruolo di deus ex machina nel ribaltare la gioiosa macchina da guerra del centrosinistra con lo stesso spirito del ‘94.
Soprattutto dal podio della Conciliazione sono arrivati alcuni segnali significativi. In primis, sul fatto che quello che sta accadendo all’interno del partito non è una guerra fratricida con ex An de una parte ed ex forzisti dall’altra. Sul palco delle “Primarie delle idee” si sono avvicendati aennini, liberali, cattolici e radicali. Lo stesso melting pot ideologico lo si poteva riscontrare tra il pubblico. Segno che la spinta fusionista nel centrodestra non si è affatto sopita, che non è una corsa al “si salvi chi può” nella quale ognuno cerca di fare un passo indietro per il proprio tornaconto. Il che, tutto sommato, dovrebbe rassicurare quelli che nello stesso momento, dal palco del Teatro Olimpico, si sgolavano nel lanciare appelli all’unità. Ma assieme a questa spinta fusionista c’è anche una gran voglia di nuovo, di liberarsi dai grandi vecchi che, nel bene o nel male, hanno fatto il proprio tempo, e di lasciarsi alle spalle le candidature fatte cadere dall’altro. C’è la voglia di decidere, soprattutto. E restituire al popolo del centrodestra la possibilità di decidere è anche l’unica maniera per porre un freno all’emorragia di consensi, soprattutto verso il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Lo si è visto anche con le primarie del Partito Democratico, in grado di risvegliare nell’opinione pubblica nazionale un’interesse nei confronti della politica che si credeva ormai morto e sepolto. Ma soprattutto in grado di scuotere dalle fondamenta la sicumera del M5S, al quale la politica aveva lasciato gioco facile nel presentarsi come unica forza in grado di esprimere realmente le istanze della gente.
Che fare di tutta questa voglia di scegliere? Per imbastire delle vere primarie è ormai troppo tardi. E poi c’è l’incognita montiana. Un’incognita per modo di dire, dal momento che il conto alla rovescia per la candidatura ufficiale del professore in loden è già iniziata. Il primo a dare la propria benedizione a Mario Monti è stato proprio il Cav, che pur non sconfessando il desiderio di tornare in lizza per Palazzo Chigi si è detto pronto a fare un passo indietro nel caso in cui il bocconiano di ferro decida di mettersi a capo di una grande e onnicomprensiva compagine moderata alternativa alla sinistra. Poi è arrivato l’imprimatur delle maggiori cancellerie europee, quella tedesca di Frau Merkel in testa, che dopo l’esperienza greca stavolta hanno giocato d’anticipo, senza aspettare che come dalle urne di Atene anche da quelle di Roma uscisse un florilegio di partitini nessuno dei quali con una maggioranza sufficientemente stabile da permettegli di governare il paese. Infine, ma non ultimo, è arrivato l’avallo del Ppe, che ha palesato la sua netta preferenza a Monti rispetto all’ennesima replica berlusconiana. Manca solo un programma vergato nero su bianco attorno al quale edificare prima delle urne la Große Koalition all’italiana, chi è dentro è dentro chi è fuori è fuori, magari anche con l’ausilio di eventuali elettori transfughi del Pd dell’ala renziana. Basterebbe questo per vincere facile. In fondo, il compito per il quale il premier tecnico sono stati chiamati a Palazzo Chigi non è ancora stato portato a termine, ed è probabile che alla resa dei conti nessuno se la senta di restare con il cerino in mano.
Ma se Monti è davvero l’unico in grado di mettere d’accordo tutti tra i politici di ala moderata, c’è da chiedersi quale sia l’appeal di cui effettivamente gode tra gli elettori. Perché un conto è l’essere il premier nominato di un governo tecnico di transizione, o l’essere il candidato scelto a tavolino nel tentativo di salvare capra e cavoli. Un’altro è passare il vaglio delle urne.
Secondo l’ultimo sondaggio di Spincon, il gradimento degli italiani nei confronti di Mario Monti si attesta complessivamente al 35%, con un 27,5% che giudica positivamente il suo operato e un 7,5% che ne da addirittura un giudizio molto positivo. Soltanto a marzo, i supporter montiani superavano senza troppe difficoltà il 55%. Oggi però agli occhi della nazione Monti è il capo di un governo che ha scelto sì di risanare i conti malconci dello stato, ma spremendo fino all’osso il contribuente, anziché sfrondare le spese, attaccare i privilegi ed eliminare le rendite di posizione. E oggi più che mai nell’opinione pubblica italiana serpeggia trasversalmente agli schieramenti politici un malcontento che poggia soprattutto sull’idea che una stretta cerchia di privilegiati riesca sempre e comunque a sfangarla perché a pagare il conto sono i cittadini. Un diffuso sentimento di pancia che opportunamente cavalcato dal M5S ha permesso a Grillo e ai suoi di macinare consensi enormi. E agli occhi di una larga fetta dell’elettorato nazionale, Monti appare come colui che non ha voluto prendere di mira gli sprechi e i privilegi, o comunque non è stato in grado di farlo.
Anche per questo domenica è stato un giorno importante. Per capire che al centrodestra che verrà serve meno calcolo e più coraggio. E che perdere le elezioni e restare all’opposizione cinque anni potrebbe rivelarsi meno tragico che perdere la faccia e scomparire dalla scena politica per sempre.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:52