«AAA il Manifesto vendesi». Un’operazione che nessun altro giornale ha mai tentato prima, era scritto una diecina di giorni fa sulla prima pagina del “quotidiano comunista” dopo dieci mesi di infruttuosa amministrazione controllata. «Una storia gloriosa è alle battute finale», lasciata anche dai padri e madri fondatori come Rossana Rossanda e Valentino Parlato. Cosa succede? Le difficoltà economiche per il Manifesto, prima uscita in edicola il 28 aprile del 1971, ci sono sempre state. Ora però la riduzione delle sovvenzioni dello stato si sono ridotte ad uno dei 3 milioni del governo Berlusconi e i conti non reggono più. Lo spirito di sinistra che aveva contagiato intellettuali e cineasti a partire da Umberto Eco, prima del Nome della rosa, non ha più la forza di un tempo quando pungolava il Pci e i fondatori del giornale erano stati espulsi dal partito di Berlinguer e Pajetta. I lettori sono crollati da 45mila circa a 16mila, i costi aumentati ed anche i debiti sono diventati insopportabili (come per l’Unità in sciopero per stipendi arretrati non pagati e nubi sul futuro) per la cooperativa che edita il quotidiano che non è più quello dei bei titoli di prima pagina e delle analisi ideologiche di alto livello. La lettura negli ultimi tempi è diventata ardua, difficile per il lettore medio e gli intellettuali non lo acquistano più, trovando altrove ospitalità e recensioni favorevoli.
«Entro il 17 dicembre, era scritto sulla prima pagina del 3 dicembre, chiunque fosse interessato all’acquisto può presentare una proposta vincolante presso uno studio notarile». Dal direttore Norma Rangeri e dal vicedirettore, Angelo Mastrandrea, non filtra notizia di acquirenti. La cooperativa va avanti aveva risposto il direttore alla lettera-commiato di Valentino Parlato, 80 anni e più, che aveva giustificato il suo addio dopo quello di Rossana Rossanda con l’affermazione che «la crisi non è solo di soldi ma anche di soldati e di linea. Quel che state facendo non mi convince affatto».
Più drastica era stata la Rosa Luxemburg della sinistra italiana Rossanda che ha lasciato il quotidiano dopo 43 anni con una lettera che brucia e in cui accusava «la direzione e la redazione d’indisponibilità al dialogo». La stessa accusa che ha rivolto il comitato di redazione del Tg3 alla “direttora” Bianca Berlinguer. Gli addio eccellenti erano cominciati con il vignettista Vauro, seguito Marco D’Eramo e Joseph Halevi che ha preso le distanze perché «non si tratta più di un collettivo ma di un manipolo che per varie ragioni si è appropriato del giornale».
È il tramonto del giornale di lotte comuniste? Indubbiamente la crisi economica c’entra, ma è anche una questione di linea come osserva Parlato. Con lo sgretolamento del Pci- Ds il Manifesto aveva perso il principale oggetto delle sue critiche mentre continuava a sognare un’improbabile rivoluzione e gli studenti lo abbandonavano. Dopo le elezioni politiche del 2008 e la nascita del Pd soltanto nel Manifesto c’è la denominazione “quotidiano comunista”. Il mezzo privilegiato di dibattito comunista ora è sull’orlo del fallimento, i lettori quasi scomparsi, i vecchi argomenti sorpassati. Il Manifesto è stato, comunque, una fucina-laboratorio del giornalismo di sinistra. Vi sono passati Lucia Annunziata, Corradino Mineo, Gad Lerner, Sandro Ruotolo, Riccardo Barenghi, Stefano Menichini, Carmine Fotia, Stefano Benni, Gianni Riotta, Mauro Paissan, il vaticanista Gianluca Nuzzi. E molti ricordano anche le note d’economia di Giulio Tremonti e gli scritti di Franco Frattini.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:06