
Ben 50 anni fa andava in crisi il monocolore democristiano: aveva traghettato l’Italia del dopoguerra verso il benessere, il boom economico degli anni ‘50. Soprattutto aveva funto da cuscinetto tra l’imprenditoria italiana (nata e rafforzatasi sotto il fascismo) e quei comunisti che volevamo una sorta di Norimberga per i facoltosi capitani d’industria. Era un’Italia assai diversa da quella odierna. La Polizia aveva carta bianca contro operai e contestatori politici. I sindacati dovevano difendere torme di diseredati, scolarizzandoli per evitare fossero solo strumenti di produzione. In quell’Italia delle buone speranze, gli Agnelli e i vari Emilio Riva, Attilio Monti, Serafino Ferruzzi, Nino Rovelli, Eugenio Cefis, Enrico Mattei... potevano ben dirsi i padroni della politica e, naturalmente, i restauratori d’una sorta di fissità sociale delle classi: le carriere erano precluse ai più, ma c’era lavoro per tutti, e le forze dell’ordine avevano ordini superiori di chiudere più d’un occhio. L’esempio è ben narrato ne Il maestro di Vigevano, dove emerge come evasione fiscale e lavoro nero abbiano non poco contribuito al boom economico italiano. Contro questo inaspettato benessere s’era schierata a metà anni ‘50 una fazione intellettuale vicina all’allora Pci, la stessa che poté poi contare sulla massiva entrata di giovani laureati nei gangli dello stato, tra magistratura ed insegnamento. Era nelle cose che magistrati robustamente di sinistra assurgessero (e per dottrina) a nemici dell’imprenditoria italiana che aveva interpretato lo spirito di quel tempo. Una lotta che s’è sempre più incancrenita man mano che la Dc cedeva spicchi di potere alla compagine di centrosinistra, nata dalle ceneri tripartitiche nel 1962 ed estintasi con Tangentopoli nel 1992. Naturalmente i capitani d’industria (coraggiosi?) sopravvivevano a “Mani pulite”, e barcamenandosi tra Prodi, Berlusconi e D’Alema raggiungevano il nostro 2012. Ma, dopo 50 di guerra tra magistratura ed impresa, il ministro Corrado Clini afferma: «Non vedo il braccio di ferro sul decreto per l’Ilva con la Magistratura, le norme del decreto sono legge e la legge va applicata». È evidente che Clini ometta che le leggi le applica il potere giudiziario, lo stesso che da 50 anni è in guerra con quello imprenditoriale. Evidentemente il ministro non vuole dare a vedere al paese che, in fondo in fondo, Berlusconi ha ragione quando dice che da decenni c’è una guerra (non tanto sotterranea) tra giudici ed imprenditori. «L’emendamento presentato oggi per integrare il decreto con un’interpretazione autentica delle norme - spiega Clini - con le quali abbiamo voluto coniugare la tutela dell’ambiente, del lavoro, e la continuità produttiva». Inoltre, in questo modo, «abbiamo voluto chiarire che il decreto è finalizzato alla continuità produttiva e alla disponibilità dei prodotti a condizione che l’Ilva applichi le disposizioni previste... Se ci sono interpretazioni del decreto diverse le chiarisce il legislatore. È questo il senso dell’emendamento». In pratica è stato risolto tutto e non è stato risolto nulla... solo parole, nei fatti questa battaglia l’hanno vinta i magistrati sequestrando il prodotto finito (l’acciaio). L’hanno persa gli operai, i cittadini di Taranto, la classe politica e naturalmente gli imprenditori. «Siamo stati allora costretti - spiega il ministro - a depositare l’emendamento al decreto per chiarire, con una interpretazione autentica, che i prodotti finiti devono essere nella disponibilità dell’impresa per la commercializzazione. Questa - aggiunge - è una delle condizioni individuate per fare in modo che l’Ilva possa realizzare gli interventi e gli investimenti per il risanamento». Per Clini è «evidente che nel momento in cui continuano ad essere bloccati i prodotti finiti non si assicura la continuità produttiva» dell’azienda; così si garantisce la commercializzazione dei prodotti. È ovvio che, senza acciaio nella disponibilità dell’impresa, il patron Riva avvierà la produzione siderurgica in altri paesi ben lieti d’accogliere il ricco capitano d’industria. Nel frattempo il decreto di Clini è stato assegnato alle commissioni di competenza, il tempo passa ed il muro contro muro vede soccombere l’impresa italiana.
Un film già visto e girato da Dino Risi nel 1971, In nome del popolo italiano, aveva come filo conduttore proprio lo scontro italiano tra magistratura ed impresa. E lo stesso Risi, intervistato negli anni di Tangentopoli, (ovverosia circa vent’anni dopo la realizzazione del film), ricordava di aver realizzato la pellicola «per riflettere già allora sull’ampiezza del potere discrezionale di cui i magistrati dispongono, e di cui forse talvolta potrebbero abusare in nome di un fine di giustizia che giustificherebbe l’uso di mezzi non ortodossi».
Nel film di Risi gli ingredienti ci sono tutti: Tognazzi interpreta il prototipo del magistrato inquirente, profondamente amareggiato della corruzione che egli percepisce prima di tutto nella pubblica amministrazione e più in generale nella società italiana. A parere del magistrato di Risi «sempre più inquinata dall’avidità decadente e immorale del capitalismo becero e senza scrupoli». Così il magistrato Tognazzi scopre che l’imprenditore interpretato da Gasman è l’archetipo del capitano d’industria disonesto (del Riva dell’epoca): elargitore di tangenti ai politici compiacenti, avvelenatore della flora, della fauna e delle falde acquifere con le sue industrie chimiche, costruttore di scempi edilizi e deturpatore dell’agreste paesaggio italico... Così il magistrato ipotizza potrebbe essere implicato nella morte d’una giovane escort, ragazza che spesso accompagnava persone ricche e facoltose a cene e festini per conto di una sedicente agenzia di pubbliche relazioni (qui l’archetipo berlusconian-imprenditorial-politico c’è tutto). Il film evidenzia l’antipatia sia antropologica che politica tra magistrati ed imprenditori: si manifesta fin dall’inizio del film, quando l’imprenditore Gasman usa come mezzo di trasporto una rombante automobile sportiva (la Maserati) e il magistrato Tognazzi s’arrabatta con un Ciao della Piaggio. Naturalmente il magistrato si reca al lavoro portando sottobraccio il quotidiano L’Unità (allora organo del Pci), mentre l’imprenditore non nasconde d’essere un fascista prestato alla Diccì dell’epoca. Il magistrato del film vede nell’imprenditore un concentrato dei peggiori vizi comportamentali dell’italiano medio, secondo la sua scuola di pensiero va punito l’imprenditore, perché cialtrone e poco di buono. Così Tognazzi distrugge le prove a discolpa di Gassman: l’innocenza dell’avversario politico non è più dimostrabile e pertanto lo fa condannare. Così l’imprenditore del film s’estingue nel 1970, al pari delle storie vere di Rovelli, Riva, Gardini... la lista è lunga e la guerra non è finita.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:02