Come riformare le Regioni

Il paradigma che più connota l’Italia è Pinocchio perché, come il burattino di Collodi che sempre promette di fare il bravo ragazzo, ma poi ogni volta smarrisce la retta via, così in questo nostro Paese capita spesso che ai buoni propositi non corrispondano realizzazioni effettive. È quello che stiamo vedendo anche con il governo Monti, che aveva promesso insieme al rigore misure per la crescita e l’equità, ma dopo un anno gli italiani stanno provando sulla loro pelle solo gli effetti del rigore. Oggi, dunque, dobbiamo essere incisivi e fare quello che per troppo tempo non abbiamo fatto, ma con assoluto equilibrio altrimenti si raggiungeranno effetti opposti a quelli sperati. In particolare dobbiamo fare riforme strutturali profonde. L’impegno che questo governo sta sviluppando sulla spending review rischia di diventare asfittico se non inserito in un intervento più ampio di modernizzazione del sistema istituzionale e del paese in generale. Anche le novità sugli enti locali inserite nel decreto legge recentemente approvato senza un rinnovamento profondo dell’intera architettura delle Regioni e degli enti subregionali non avranno l’impatto sperato. Purtroppo torna qui la metafora di Pinocchio perché ad oggi, un po’ come il burattino, che non solo non va più a scuola per andare a divertirsi ma si vende per quattro soldi pure l’abbecedario, le Regioni non solo non hanno rispettato lo spirito che nel 1970 le voleva esclusivamente come enti di programmazioni, ma anzi esse sono diventate centri di spesa a pioggia, incontrollata, e per giunta con la conservazione di tutte le Province, che adesso in modo un po’ maldestro il governo Monti ha accorpato.

In quest’ottica, limitandoci alle Regioni, che sono oggi gli enti maggiormente posti sotto accusa, si devono seriamente considerare tre linee di intervento: 1) la loro riduzione sulla base di criteri di omogeneità territoriale con confini socio-economico razionali (lo studio della Fondazione Agnelli che risale al 1996 ne prevede 12, ma si potrebbe arrivare ad una riduzione più drastica, vale a dire sino a 4 macroregioni: Nord Ovest, Nord Est, Italia Centrale con la Sardegna e l’Italia Meridionale con la Sicilia); 2) ricondurle alla loro funzione originaria di enti legislativi e programmatori (tutta la parte gestionale deve essere data in via esclusiva a comuni, unioni di comuni, aree metropolitane, etc, tutti enti subregionali che, comunque, devono essere ricondotti al numero minimo essenziale); 3) renderle fortemente sburocratizzate e sottoporle a effettivi e rigorosi controlli contabili. 

Questa riforma deve comportare sia l’eliminazione completa delle Province, che, pur ridotte, continuano a rappresentare entità obsolete e dispendiose, sia il superamento delle Regioni a Statuto speciale, che costituiscono una  ingiustizia sul piano giuridico ed economico rispetto alle altre Regioni.

I vantaggi di questi interventi, sono evidenti. Le Regioni finirebbero di essere centri di spesa incontrollati e potrebbero intervenire con efficacia  avendo un campo d’azione unitario del territorio; infine, si realizzerebbero ulteriori economie con la riduzione dei 20 consigli con relativi organi (commissioni, giunte, apparati burocratici, etc) a 12 o, addirittura, a 4. In ultimo, si tratta di rivedere anche il Titolo V della Costituzione, un prodotto che ci ha lasciato il centrosinistra in nome di un mal digerito ed affrettato federalismo. Occorre riscrivere con assoluta chiarezza, per evitare costosi contenziosi, le materie di competenza regionale e quelle di competenza dello Stato, eliminando le contraddizioni che derivano da quelle che oggi sono concorrenti. È questo un passaggio fondamentale e non rinviabile: in assenza di una nuova architettura regionale, anche la migliore iniziativa potrebbe appannarsi o, addirittura, vanificarsi. 

* Consigliere regionale del Pdl

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:52