La classe operaia va all'inferno

La classe operaia va in paradiso, il film di Elio Petri del 1971, più che un film satirico, oltre che drammatico, si rivela oggi anche un film profetico. Perché non solo nel tempo una parte della classe operaia italiana non ha sostanzialmente mutato la propria difficile condizione, ma perché, pur volendola mantenere non ci riesce e rischia per di più continuamente la disoccupazione. Quattro decenni sono passati invano e non hanno insegnato nulla. Non mi riferisco né all’articolo 18 né al cuneo fiscale, ma piuttosto alla condizione di vera e propria sudditanza alla quale certe categorie operaie sono state costrette da una inesistente o ideologicamente colpevole politica di sviluppo industriale, che si dimostra non di avanzamento economico e civile, ma piuttosto di complessiva regressione.

Veniamo al punto. A vario motivo l’Ilva, l’Alcoa, la Fiat, sono tre vicende di un processo di sfaldamento della struttura produttiva italiana riconducibile alle medesime cause, anche se apparentemente diverse.

Allo stesso modo che i dissesti idrogeologici, quindi inondazioni e frane, sono tanto frequenti nel nostro territorio per causa di assenze di politiche concretamente ambientali, le crisi delle tre aziende sunnominate sono inquadrabili in politiche industriali assenti o miopi, quando non colpevolmente e artatamente perseguite.

Per quanto alla Fiat appaia evidente, al di là di ogni considerazione di convenienza aziendale o familiare, che pur esiste, una miopia di fondo di coloro che facendo per mestiere i manager non hanno previsto per tempo la saturazione del mercato interno in primo luogo e la comparsa sulla scena produttiva di altri competitor. Nel caso specifico poi, l’errata collocazione di uno dei suoi stabilimenti a Termini Imerese, sulla splendida costa palermitana, è la cartina di tornasole della totale assenza di cultura di intere classi politiche e sindacali che hanno giudicato nella sola industria pesante l’unica via di salvezza per le popolazioni dell’Italia meridionale. Sono così state volutamente ignorate altre possibilità di lavoro e sviluppo che avrebbero potuto dare migliori risultati oltretutto nel rispetto e nella conservazione del territorio.

Circa l’Ilva, vale la medesima valutazione fatta per la Fiat. L’industria pesante è stata, anche in questo caso, vista come unica via di produzione di reddito. Posizionata in una regione meridionale, in un territorio anch’esso ben connotato per possibili e migliori altri sviluppi. Una industria per definizione fortemente punitiva della personalità e indipendenza di coloro che vi prestano la loro opera i quali, ben che vada, rimarranno sempre in una condizione di subordine dalla quale molto difficilmente si esce e che diventa pertanto antitetica alla possibilità di scalata sociale o più semplicemente alla conquista di una autonomia di vita.

Anche per l’Alcoa valgono le medesime considerazioni. Con l’aggravante, per tutte e tre queste aziende, che esse operano in regime di scarsa concorrenzialità soprattutto per gli elevatissimi costi dell’energia. 

Che in Italia sia assente una politica industriale lo abbiamo detto ed è provato, ma che la visione sia tanto limitata fino a diventare premeditato e colpevole atto teso, anche attualmente, a proseguire in un errore che si rivelerà ben presto di portata storica, questo è un altro dato di fatto.

Non si affronta una qualsiasi attività senza strumenti adeguati: un corpo naturalmente dotato e ben allenato per qualsiasi attività sportiva, un’automobile sportiva appositamente progettata per gare di corsa, un approvvigionamento energetico degno di questo nome per aziende la cui materia prima (non secondaria quindi) è proprio l’energia. Che noi non possediamo! 

E inoltre. Come se una sana economia non si dovesse fondare su un mix quanto più vario possibile di attività, sia per motivi di complementarità che per suddivisione di rischi, si è operato volutamente trascurando le possibilità offerte dal patrimonio ambientale e culturale dei territori meridionali, per inserirvi innaturalmente, ciò che oggi si sta palesando come fallimentare sotto ogni punto di vista.

Nonostante timidamente qualcuno azzardi ad ammettere che sì, forse, anche le attività turistiche o artigianali, o quelle agricole insieme alle loro industrie di trasformazione dei prodotti della terra, congiuntamente alla industria manifatturiera, alla ricerca per produzioni ad alta tecnologia, potrebbero essere le carte vincenti per lo sviluppo del meridione d’Italia, nulla e nessuno prova a inserire ciò tra le priorità da porre allo studio per la successiva realizzazione. Ma tant’è, decenni di prediche inutili non hanno rimosso gli spessi strati ideologici e gli interessi di larga parte dei responsabili politici ed economici di questo paese. 

Si continua così a lasciare che certe aziende continuino la loro attività devastante pur in competizione con altri paesi meglio energeticamente attrezzati, come Cina e India, meno sensibili alle priorità umane e ambientali. 

Siamo quindi destinati a perdere per impari competizione ma, quel che è ancora più grave, perdiamo nello stesso tempo la possibilità di dotarci diversamente di altre risorse produttive, mentre alla classe operaia si rischia di aprire definitivamente la porta dell’inferno per la incertezza del futuro prima e per la certa disoccupazione poi. Anticamera di quanto di peggio l’Italia dovrà presto affrontare.

 

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:13