Anatomia di una rivoluzione fallita
Che cosa non ha funzionato in Silvio Berlusconi? Per discutere serenamente di un leader politico che ha diviso l’Italia, occorre, prima di tutto, ammetterne la fine. E non farsi illudere da eventuali improvvisi ritorni. Berlusconi è spesso definito come un’araba fenice: dato sempre per morto, torna in auge quando nessuno se l’aspetta. In ogni caso: sgombriamoci la mente da queste ipotesi. E pensiamo all’unica cosa reale: il berlusconismo è finito, prima ancora del ritiro del suo ispiratore. Berlusconi, entrando in politica nel ‘94, si era dato un compito ben più ambizioso di quello dei suoi colleghi europei di destra. Non doveva solo impostare una politica estera diversa e ridare fiato al mercato libero, ma pensava di poter ristrutturare il sistema-paese. L’imprenditore e magnate delle televisioni, famoso in tutta Italia già da due decenni, fu praticamente l’unico ad intuire quali fossero i mali radicati nel sistema: un centralismo soffocante, una giustizia disfunzionale e ideologizzata, una Costituzione ormai datata, uno stato onnipresente nell’economia, un fisco in grado di strangolare l’economia e una cultura fondata sull’invidia sociale. Scese in campo personalmente, perché riteneva (giustamente) che nessuno dei leader politici dei primi anni ’90 fosse in grado di gestire un cambiamento così imponente. Per la semplicissima ragione che tutti gli uomini politici cresciuti nel secondo dopoguerra erano imbevuti di quella stessa cultura politica che doveva essere cambiata.
Partendo da questi presupposti, possiamo dire che Berlusconi sia fallito, proprio perché non è mai stato berlusconiano. Gli obiettivi prefissati non sono stati raggiunti, con tutta evidenza. Non si ricorda alcuna riforma “memorabile”. E non si vede alcuna differenza sostanziale fra l’Italia del 2012 e quella del 1994: i problemi che ci affliggono oggi sono esattamente gli stessi di allora. Soprattutto, i dogmi collettivisti e l’invidia sociale che egemonizzavano la nostra cultura allora, sono tuttora dominanti. Ed è proprio qui il motivo del fallimento del berlusconismo: è mancato un necessario rinnovamento culturale. Prima di tutto: all’interno degli stessi partiti fondati da Berlusconi, Forza Italia prima, il PdL poi. In privato, la maggioranza degli esponenti di Forza Italia, non hanno mai espresso entusiasmo (a dir poco) per il disegno di riforma del Paese concepito da Berlusconi.
All’atto pratico, lo si è visto. Non c’è mai stato alcun serio tentativo di sintonizzare su un progetto nuovo ideologie differenti, ereditate dal passato novecentesco, quali il conservatorismo cattolico, il liberalismo, il socialismo riformista. Con la fondazione del PdL il problema, se possibile, è ulteriormente peggiorato, è avvenuta una fusione con un intero partito, Alleanza Nazionale, la cui identità culturale, dopo l’abbandono del neo-fascismo del Msi, non è neppure mai stata definita con chiarezza. Non è mai stato tentato alcun “fusionismo” fra le culture interne a Forza Italia, né fra quelle di Forza Italia e Alleanza Nazionale. La cultura politica, snobbata dal premier “del fare”, si è vendicata. Senza alcun progetto condiviso, senza alcuna comune visione del futuro, il PdL è finito col dividersi in bande politiche le une contro le altre ostili, dopo solo due anni di governo. Si possono cercare giustificazioni esterne quanto si vuole: l’accanimento giudiziario, la campagna di delegittimazione dei media, la cronica “ingovernabilità” del Paese, l’infedeltà di Bossi prima, Casini poi e infine di Fini. Ma il problema resta interno: Berlusconi non ha saputo trasmettere la sua idea dell’Italia ai suoi uomini. Non ha dato loro alcuna bussola politica e culturale. E solo così si spiega la fine di un movimento e di un progetto che, nel Paese, ha sempre conquistato la maggioranza dei consensi.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:55