
Alle ore 13 del 17 luglio 2012, Claudio Martelli (guardasigilli nel 1991) dichiara al tiggì de La7 che «tra stato e mafia altro che trattativa, c’è o ci fu connivenza...». Una dichiarazione che lascia trapelare come il Psi (partito di riferimento di Martelli) fosse fuori dall’antico gioco tra Democrazia cristiana e mafia. Che il patto tra stato e mafia (pardon tra Dc e mafia) fosse fondativo nella storia della repubblica italiana, lo avevano già denunciato Peppino Impastato e Umberto Santino (fondatore del centro documentazione sulla mafia intitolato alla memoria di Impastato). Anzi, in una pubblicazione di Giuseppe Montalbano (studente e poi ricercatore alla scuola Normale di Pisa) c’è Santino che rammenta come «il patto stato-mafia vada declinato al plurale, può essere tracciato in maniera trasversale lungo l’intero arco della storia della repubblica: diversi sono invece i rapporti di forza che si sono delineati dalla Liberazione ai giorni nostri, come differenti sono le interpretazioni date dagli studiosi sulla natura del fenomeno».
Ovviamente sia Montalbano che Santino si riferiscono alla mafia siciliana, e traggono dalle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta (uomo di Cosa Nostra) uno schema del rapporto che si instaura nel dopoguerra in Sicilia, dopo la parentesi indipendentista e col compiersi dell’egemonia democristiana. È evidente che il patto stato-mafia denunciato dall’ex guardasigilli Martelli sia un fenomeno antico, ed emerso tra fine anni ‘80 ed il ‘92 perché, al crepuscolo della Prima repubblica, la Diccì non riusciva più ad evitare venisse infranta la riservatezza su segreti di stato alla base del regime democratico.
«Un rapporto di sudditanza della politica a un sistema di potere che ha trovato dopo lo sbarco degli alleati un terreno fertile su cui riattecchire», osserva Giuseppe Montalbano. Agli atti del Centro documentazione Impastato risulta del resto che, in data 26 aprile 1984, lo stesso primo presidente della Regione Sicilia, l’avvocato Giuseppe Alessi, abbia pubblicamente esposto a Caltanisetta (durante un convegno sul dopoguerra in Sicilia) la storia dello “scontro col partito del Vallone”: un insieme di comuni del nisseno, patria dei capimafia più potenti del dopoguerra. In quell’occasione è stato Giuseppe Alessi (fondatore delle Dc in Sicilia) a parlare di asservimento a Calogero Vizzini, uomo che ebbe un ruolo centrale insieme alla Chiesa siciliana (imperniata nella figura di monsignor Jacono, allora vescovo di Caltanissetta) nella stesura del patto stato-mafia dopo il tramonto del milazzismo (politica indipendentista).
«Questo rapporto interattivo comincia con la formazione dello Stato unitario ed è preceduto da una lunga fase di incubazione (quelli che chiamo fenomeni premafiosi sono documentabili fin da XVI secolo) - spiega Umberto Santino -. La mafia nell’immediato dopoguerra è un soggetto decisivo nella nomina di sindaci e amministratori. Quindi il problema non è solo Caltanissetta, come nell’analisi di Alessi, è l’assetto di potere nazionale e regionale, con l’affermazione del centrismo, cioè della supremazia democristiana: non vedo pertanto una mafia onnipotente che detta le leggi alla politica e la politica che obbedisce ed esegue. Direi piuttosto che c’è un matrimonio consensuale - precisa Santino - che consente all’assetto politico di riprodursi e perpetuarsi e alla mafia di prosperare e di inserirsi in posizione privilegiata dentro un quadro sociale in mutamento, con la spesa pubblica che diventa la risorsa fondamentale, una volta ridimensionata l’agricoltura e sviluppatosi il settore terziario-parassitario».
Secondo Santino sulla “trattativa stato-mafia” la verità starebbe nella «convivenza pacifica tra mafia e politica governativa che dura fino alla fine degli anni ‘70 e ai primi anni ‘80, quando l’accumulazione illegale straripa e la mafia chiede molto di più, abbattendo gli ostacoli che incontra al suo processo di espansione, anche all’interno dello schieramento al potere». Così per Santino la trattativa dell’89-’92 andrebbe inquadrata nella «lievitazione dell’accumulazione illegale, che porta a una lievitazione della richiesta di spazi di potere, e si mischia con la volontà di dominio dei corleonesi, fino ad allora parenti poveri della mafia cittadina: i corleonesi impongono una dittatura monarchica a un’organizzazione tradizionalmente repubblicana e colpiscono a morte anche chi all’esterno si oppone o non è affidabile». «Vincono la guerra interna ma con il delitto Dalla Chiesa e con le stragi del ‘92 e del ‘93 - spiega Santino - suscitano effetti boomerang: la legge antimafia, approvata dieci giorni dopo il delitto Dalla Chiesa, il maxiprocesso, gli arresti e le condanne».
E che la “trattativa stato-mafia” fosse un affare ereditato da lontano emerge nel 1992: sono proprio le parole di Giulio Andreotti, e nell’ormai storica intervista a Panorama, a rivelarci che con l’omicidio di Salvo Lima (Diccì andreottiano della prima ora) finiva un mondo, forse lo stesso tacito patto tra stato e mafia. In quel tragico marzo del 1992, sia Giorgio La Malfa che Leoluca Orlando avevano detto «Lima non può essere accostato a vittime della mafia come Dalla Chiesa, La Torre, Piersanti Mattarella...». Frase che Andreotti bollò come una calunnia verso il suo amico Lima, ed a cadavere ancora caldo. «Mentre nessuno ricorda che Lima è stato l’unico a fare il piano regolatore per Palermo - dichiarava Andreotti a Panorama -. E che dopo 40 anni di politica non solo nessuno era riuscito a intaccarne la forza e la figura, ma è tuttora in piedi il processo per calunnia, per quel tentativo di colpirlo alle spalle con due pentiti. Grazie all’onestà di un giudice il tentativo è stato smascherato. Ma adesso che Lima è morto è necessario che la pagina processuale non sia chiusa».
Maurizio Chierici rammenta, sul Corriere della Sera del 14 marzo 1992, come «Orlando paragona l’omicidio Lima a quello del banchiere Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano». Un omicidio che indica la fine d’un tempo e dei relativi accordi? Le parole di Andreotti sono precise e pesanti. «Sono il sintomo di un regime che non riesce a sopportare il peso del passato. Un segno dei tempi. Come dice Goethe, Alla fine dipendiamo dalle creature che abbiamo creato». «L’esperienza della Dc è emblematicamente quella di Andreotti - commenta Chierici sul Corriere -, e condizionata dalle troppe illegalità alimentate e sostenute in nome di una malintesa carità di partito. Mentre i dirigenti della Democrazia cristiana sembrano intenti a difendere la parte peggiore del loro passato, c’è un patrimonio di onestà, di libertà, di democrazia che deve trovare spazio fuori dagli angusti apparati di partito”. E così, rivoltando come un calzino il teorema della “trattativa stato-mafia”, potrebbe emergere che quelle stragi e quegli accordi trapelati sono il frutto dello sfaldamento d’un accordo tra ex potenti: la Diccì non era più quella del 1950, e la mafia ormai aveva cambiato pelle, dimenticato la lezione di Lucky Luciano.
Quarta puntata – 4 continua
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:03