Le toghe star contro Napolitano

La notorietà fa bene, rende lo spirito giovane, tonifica, sublima il disagio dell’anonimato. Un training autogeno di eccellenza. Ma per restare in auge bisogna essere bravi, massimamente competenti. Il pressappoco porta alla caduta verticale e travolge anche quel minimo di notorietà conquistato in una notte di mezza estate.

La procura di Palermo ha affidato a tre saggi la propria difesa nel conflitto di attribuzione fra poteri dello stato sollevato dal Quirinale davanti alla Corte Costituzionale. Nella memoria di costituzione Alessandro Pace, Giovanni Serges e Mario Serio si sono fatti prendere la mano. Forse anche loro conquistati dall’importanza del mandato, non hanno svolto solo argomentazioni giuridiche, ma si sono avventurati in giudizi estranei al compito difensivo. È vero che il Capo dello stato non deve essere ritenuto un monarca, secondo il brocardo legibus solutus, “non soggetto alla legge”.

Il presidente Napolitano lo sa bene e tale non si sente. Lo provano la sua storia personale, i suoi comportamenti lungo gli anni che vanno dalla seconda guerra mondiale fino a quando è stato eletto, appunto, presidente della Repubblica Italiana. Lo dimostra il suo limpido, superbo agire nell’esplicazione del ruolo e della funzione alla quale è stato chiamato. Certo, Napolitano non ha bisogno della mia povera difesa. E non mi permetto di difenderlo, sarebbe presunzione. Intendo solo segnalare ai cittadini italiani, sia a quelli che hanno un colore politico sia a quelli che non si rifanno ad alcun colore, dalle pagine di questo giornale che mi ospita, l’arroganza imperiale di certi magistrati, più rivolti all’impegno politico che a quello giudiziario, che prediligono i passaggi in tv, i convegni e congressi di partito che non restare chini sui libri di diritto. Voglio dire ai cittadini italiani che una piccola percentuale di magistrati intende usare la propria posizione per svolgere attività politica a tutto campo, partecipando direttamente al dibattito politico nazionale, senza rischiare il giudizio degli elettori e strumentalizzando l’enorme potere coercitivo che gli deriva dal ruolo rivestito.

Tanti singoli autocrati che sotto il falso ritornello “mi limito ad applicare la legge” tiranneggiano il malcapitato di turno, che è quasi sempre un politico per poter conseguire l’anelata visibilità. E più alto ed importante è il personaggio politico maggiori ne sono gli effetti sul piano pubblicitario. Si potrebbe affermare, parafrasando, “la pubblicità è l’anima della notorietà”. L’applicazione della “legge” può anche risultare ineccepibile, indipendentemente dalle ragioni del malcapitato. Una delle poche frasi intelligenti che disse Di Pietro quando era ministro dei Lavori pubblici fu quella di sostenere che le istruttorie per l’assegnazione degli appalti sarebbero risultate tutte conformi alla legge, nonostante che il designato appaltatore fosse l’amico dell’amico.

I luoghi di elezione dei nostri eroi con la pistola ad acqua sono sempre gli stessi: la procura di Palermo, quella di Milano e sovente anche quella di Napoli. È molto grave che qualche baroncino dell’università si permetta in un atto difensivo giudiziale di esprimere giudizi e opinioni sulla parte avversa, invece di rispettare i confini delle argomentazioni giuridiche. Sfugge a questi professorini che l’attribuzione di una competenza politico-istituzionale consiste in una attività ben più ampia e diversa da quella del rispetto di una procedura amministrativa o giudiziaria, secondo la norma di riferimento. Non è difficile capire che il compito e le funzioni di un presidente della Repubblica, di un presidente del Consiglio dei ministri, di un ministro non possono limitarsi a seguire semplicemente i dettati di protocolli, pur necessari, ma l’agire va verificato nell’ambito del perimetro costituzionale e delle norme generali riguardanti gli atti politici, caratterizzati dalla estrema libertà del fine.

Infatti, per quanto ampia possa presentarsi la discrezionalità amministrativa della pubblica amministrazione, quest’ultima sarà sempre vincolata dal necessario perseguimento delle finalità pubbliche, nonché nell’impossibilità di utilizzare un atto per fini diversi da quelli per i quali il potere stesso è stato concesso. Gli atti politici (a differenza di quelli amministrativi) sono caratterizzati dal fatto di provenire da autorità di governo e di essere concreta realizzazione del potere politico.

Il board di difesa della procura palermitana sostiene la irresponsabilità del presidente per gli atti funzionali, ma non per quelli extrafunzionali. La norma generale fissa un principio generale nell’ambito del quale l’agire si presenta variegato e molteplice e non può essere ontologicamente rapportato ad una precisa condotta specifica. L’agire del  presidente della Repubblica è sempre di carattere istituzionale anche quando interloquisce direttamente con soggetti che si rivolgono a lui per ogni problema, per ogni questione. I confini non possono non essere borderline.

È come se un qualsiasi denunciante/querelante di un reato chiedesse la condanna del magistrato per aver violato il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Migliaia di denunce/querele finiscono nel dimenticatoio, quando non si perdono in qualche porto delle nebbie. Paradossalmente, la triade difensiva nell’atto di difesa della procura di Palermo paventa anche la violazione di tale principio: «Infine, vi sarebbe una plateale violazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) su cui torneremo in conclusione». Ma il principio è sistematicamente disatteso o applicato discrezionalmente, secondo una regola di opportunità mediatica (ovviamente non da tutti). Ed ancora «si osserva comunque che l’allegazione agli atti è una circostanza neutra, perché ogni atto di indagine nel momento stesso in cui vene compiuto, nasce all’interno di un determinato procedimento ed è quindi si per sé allegato a quel procedimento». Proprio perché compiuto e, quindi, allegato determina la lesione delle prerogative del presidente della Repubblica. Ed ancora «a proposito delle intercettazioni casuali o fortuite va detto che non solo l’art. 7 della legge n. 289 del 1989 non le vieta, ma non potrebbe vietarle, in quanto un divieto può avere ad oggetto una condotta volontaria, non un fatto fortuito». Ed allora proprio perché fortuite e non volontarie tali intercettazioni possono essere immediatamente distrutte da pm senza l’intervento del gup, al quale vengono poste tutte quelle questioni volontariamente assunte.

I magistrati non hanno tutti lo stesso dna e non tutti nascono con il timbro di magistrato, rigorosamente educati per il compito che faranno da grandi. L’acustica delle encomiabili intenzioni è ricca di parole, di promesse, di impegni puntualmente disattesi, falsificati, mancati. Nuovi e vecchi predicatori, esperti fai da te, rivoluzionari part-time, maître à penser del pressappoco si sono assunti il compito di riformare il sistema giustizia, di rendere la risposta della “Giustizia” rapida ed efficace. Ieratici magistrati, ineffabili giornalisti, potenti conduttori, si ammantano di attributi di autorevolezza, di una competenza che non possiedono, costretti ad abdicare all’uso della ragione, ci trascinano nell’abisso, all’esaurimento della sostanza vitale, della dignità della regola.

Per il bene del paese (come tutti amano ripetere) magistrati, ex magistrati, magistrati parlamentari, magistrati rappresentanti di categoria, magistrati consulenti, direttori di quotidiani, giornalisti di cronaca giudiziaria, anchorman/woman del diritto, sedicenti intellettuali di strada, cineasti, attori e cantanti, opinion maker, dovrebbero osservare un lungo periodo di silenzio,  interrompete quelle repliche trentennali sulla condanna alla delegittimazione della magistratura, sulla indipendenza ed autonomia, sulla obbligatorietà della azione penale, sul divieto di separare le carriere tra pm e giudice, sul rispetto del lavoro del magistrato, sulla difesa della sua libertà, della democrazia, che è un combinato disposto che non guasta.

Si è stabilizzato il falso sillogismo: “tutti i magistrati applicano la legge”; “io sono un magistrato”; “quindi applico la legge”. Ed allora…….allora accade che in qualche occasione la legge è applicata male, disattesa, non rispettata, elusa, truffata. La magistratura in ogni epoca, in ogni paese rappresenta un corpo della società, un elemento tra gli altri che compone lo stato. Va esaminata per quello che è nel suo tempo e nel suo luogo e non per quello che dovrebbe essere. La beatificazione del “magistrato” viene respinta dalla giustizia quotidiana, dalle sentenze metropolitane, dalle attese siderali, dalla mancanza di legalità, dall’assenza delle regole.

Una lunga catena di errori, giudizi imbarazzanti segnano il destino opaco dei simulacri della Magistratura che ha generato la sfiducia dei cittadini in una giustizia sfigurata, polverizzata, da decenni di fallimenti, da inutili convegni e dibattiti. L’impatto emotivo dell’apparizione in tv tiene alto l’umore e contrasta la depressione, ma procura danni irreparabili alla credibilità delle Istituzioni. Anche nella magistratura ci sarà bisogno un po’ da rottamare.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:08