Crollano le copie, chiudono i giornali

Il mondo prevede la fine della stampa cartacea per il 2017. Quest’anno sono più di mille i giornalisti considerati in esubero mentre i fatturati, sostenuti da più di un finanziamento pubblico, tremano all’idea di scendere sotto i 3 miliardi, dai 4,8 del 2004, con una perdita di 100 milioni l’anno. 

La vendita dei quotidiani è di 4,7 milioni di copie, al livello anteguerra. Gli accessori (libri, dvd, francobolli, modellini) dal miliardo sono scesi a 350 milioni. I 168 distributori locali del 2004 sono oggi un centinaio e le edicole cinquemila in meno, 30.500. 

La pubblicità va per il 60% in televisione e solo per il 19% sulla stampa (10% ai periodici, 8,5 ai quotidiani, 0,67% ai giornali free); a seguire il 4,8%, sul web, ca 200 milioni. La corazzata Rai, tv di stato, si è fatta superare dal Google nazionale nella raccolta pubblicitaria. Si pensi che per la Rai lavora, direttamente o no, lo stesso numero di persone che in Google è la somma dei dipendenti in tutto il mondo. 

Nella crisi le spese di lettura sono tra le prime a crollare ed in un anno si sono persi tre quarti di milione di lettori in un paese che già ha sempre letto poco. Agli italiani non piace la stampa nostrana interessata dell’interfaccia partitica e mai degli acquirenti. Come i politici sono sentiti lontani, così i principali editorialisti ed opinion makers non rappresentano che se stessi. Non a caso ampie masse maggioritarie di elettori non hanno voci forti editoriali a rappresentarli. In Italia vale più l’espressione di Ignacio Ramonet: «I giornalisti hanno perduto il monopolio dell’informazione e la società ha accettato l’idea che ormai tutti sono giornalisti». Questo nel nostro piccolo. Poi più in generale press, editoria ed altre forme di lettura sono destinate ad essere voci del fatturato delle telecomunicazioni. 

Inutile attendersi granchè dall’acquisto on line di libri o newspaper. La lettura on line sui diversi portali può essere pagata solo da consumo o abbonamento tlc mobile o fissa. Prima di accettare la ristrutturazione della catena commerciale, passerà molto tempo, di cui l’adversiting on line approfitterà. Non a caso negli Usa hanno chiuso 166 testate dal 2008. Nella grillina Parma a fronte della chiusura di Parmanews24, Sera di Parma e La Cronaca di Cremona e Piacenza, i 180mila parmensi godono del record di 19 siti di news sul web. L’area culturale antagonista comunista, ampiamente sopravvalutata rispetto al suo consenso reale ed alla risacca della storia, che l’avrebbe voluta morta e sepolta da più di 20 anni ha subito più delle altre. Hanno chiuso Terra dei verdi, Liberazione, Il Riformista, l’Avanti, City, free press Rcs, le testate di Emergency (PeaceReporter ed E-il mensile) con un positivo “Ci arrendiamo al mercato”. Intanto Celentano chiedeva la chiusura ope legis de l’Avvenire. Per sopravvivere ad un mondo in cui il comunismo si è fatto dirigismo economico, l’altra faccia bifronte fascista, raggiungendo i migliori risultati capitalistici, la stampa rossa nostrana si è fatta giustizialista. In questo contesto brilla l’anacronismo perfetto del dibattito de Il Manifesto, soldato giapponese sopravvissuto a se stesso. 

Quotidiano moribondo che malgrado le vendite in crollo, ha sempre puntato più in alto con più costi, più copie, più inserti, più lussi, aiutato da manine insperate (banche e vecchie solidarietà) di 4 milioni tra ‘06 e ’09. I 40 mila lettori del ‘90 si sono però ridotti agli odierni 15mila. Il giornale si è trovato con stop delle attività e pratiche fallimentari già avviate. La “vera istituzione del giornalismo italiano” si è ribellata. Qualcuno ha ricordato che nel ’70 Pintor promise il coinvolgimento dei lettori. 

Detto solo ieri, insomma. I lettori sul territorio si autotassano, vogliono diventare gli editori, ma la redazione non li capisce. Noblesse oblige, il governo da destra storica in carica salva tutti: 36 tra giornalisti e poligrafici, intoccati e 34 in cassa integrazione. Lo psicodramma è però in atto. La redazione ammette «grandi sacrifici per rispettare condizioni molto pesanti nella gestione corrente dei bilanci» (sic). I circoli di Padova, di Pietrasanta, di Bologna e della Sardegna, rivendicano il loro diritto di naturali “editori”, in linea con l’ideologia prefissata, con lettere mandate on line «per paura di non essere pubblicati». La redazione rifiuta sia l’acquirente borghese illuminato, che la reductio a 25 ed accusa come «nemici dei lavoratori» i circoli che chiedono l’autoriduzione a 35 dipendenti. 

Tutti tirano per la giacchetta la Rossanda, ragazza del secolo scorso, che si chiede “ma perché ero comunista?” e che “pare abbia pessima opinione di “cos’è il Manifesto”. 

Cosa pensi Magri non si sa, ha anticipato la sua creatura l’anno scorso, con il suicidio assistito. Come Minerva ad Ulisse, Parlato parla ai circoli: «Ho superato gli 80, Molto è cambiato. Breznev, il cambio nome del Pci, la lotta di classe dei padroni, la patrimoniale la voleva anche Einaudi. Dovremo costituire una nuova cooperativa… fare ricorso all’azionariato». Nelle assemblee scoppiano gli interessi contrapposti di redattori, collaboratori, lettori-sotenitori, ovviamente tutti comunisti. Finisce in forse l’ipotesi «di proprietà collettiva, unica evoluzione in linea con la sua storia». 

L’amministrazione controllata preme ma ferve il dibattito su «statuto, regole rapporto proprietà e redazione nell’autonomia di quelli che ogni giorno fanno il giornale». Così dopo 40 anni muore il Manifesto fuori di testa tra vecchi e lavoratori angosciati per il loro futuro. La colpa è ovviamente degli operai che non lo comprano e dello stato che non lo mantiene. Nato nel ’69 come “dazibao” maoista contro il Pci in un dibattito bordighista già decrepito allora, partito e giornale, il Manifesto aveva il rispetto di tutti, degli intellettuali indipendenti, organici e quello ipocrita degli altri. Avrebbero dovuto dirgli, come si fa alla vecchia che vuol fare la sciantosa: basta, sei ridicola. Nel suo modo cinico il Pd l’ha fatto appropriandosi al terzo trasloco, della sede di via Tomacelli de Il Manifesto, destinata a Bersani e ed al tesoriere Misiani. Botteghe oscure è in disuso, l’acquario del circo Massimo lasciato, Tritone e Botteghino in via di abbandono. Il più del Pd che ha bisogno di 5mila mq resta in via Sant’Andrea delle Fratte al Nazzareno, in affitto al fantasma Margherita. C’è tutto il tempo perché anche al Manifesto restino solo ragnatele. “Ci arrendiamo al mercato”.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:33