Vitiello e le idiozie giustizialiste

Con levità - una leggerezza che ancor più incide e segna – Guido Vitiello su La Lettura,  supplemento domenicale del Corriere della Sera, affronta una questione di sostanza: le idiozie (e spesso sono autentiche idiozie criminali) che si evidenziano e ci opprimono con quella che definisce la «neolingua giustizialista».

Questione importante e nient’affatto teorica. L’aveva, da par suo, individuata Leonardo Sciascia. E ce ne aveva messo in guardia nel suo ultimo racconto, quasi sillabato dal letto in cui per la malattia si trovava. Nell’edizione Adelphi, bisogna andare alla pagina 44, il dialogo tra il magistrato e il suo vecchio professore: «Posso permettermi si farle una domanda?…Poi gliene farò altre, di altra natura…Nei componimenti d’italiano lei mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?». «Perché aveva copiato da un autore più intelligente» rispose il professore.

Il magistrato scoppiò a ridere. «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…». «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare - disse il professore - Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto».

Sempre Sciascia una volta propose, per gioco – ma non tanto, per come poi le cose si sono evolute. La proposta andrebbe forse studiata per una sua pratica realizzabilità – che finito il corso previsto, un magistrato, come integrazione della sua formazione, dovesse trascorrere dai tre ai sette giorni in un carcere, a far la vita del detenuto, in modo da rendersi conto, in corpore vili, cosa significava, e comportava, la decisione di privare qualcuno della sua libertà. Enzo Tortora, che quell’esperienza dolorosa e ingiusta l’ha patita, propose qualcosa di più blando: un periodico monitoraggio per ogni magistrato. E coloro che avevano commesso un certo numero di errori, trasferiti in uffici dove non potessero fare più danni.

Chi scrive si accontenterebbe – ma già, si possono immaginare i negativi commenti - che di ogni magistrato venissero studiate le pagelle del liceo, il voto in italiano appunto. Per valutare se merita di fare solo il procuratore della Repubblica. O, magari, di essere destinato «ancora più in alto».

Vitiello ha tanti pregi. Sia che scriva su La Lettura, sia che intervenga sul Foglio, ha il dono di far riflettere, per cerchi concentrici. Il pensiero, la riflessione che evoca, spazia, fluttua leggera, ed emergono da imperscrutabili strati dove la memoria li aveva temporaneamente sepolti. Ed ecco apparire altre riflessioni e ricordi. Leggendo la piccola (e tuttavia esemplare) galleria di idiozie partorite dalla neo-lingua giustizialista, proprio per via di quelle concatenazioni incontrollate ma non arbitrarie, ci si trova a rileggere la pagina che precede il dialogo tra il procuratore e il professore d’italiano. Ed è pagina inquietante, perché corrisponde a tanta cronaca che ormai rischia di assuefarci (se già non lo si è).

È la pagina 43: a colloquio sono il magistrato, il questore e il colonnello. E sarà il magistrato a mettere, per una volta, d’accordo, storici rivali come appunto hanno fama d’essere, poliziotti e carabinieri: «…Il magistrato assunse aria di grave pensamento e poi disse: “Sapete che cosa penso? Che casuale per quanto si voglia, l’uomo della Volvo entrò nell’ufficio del capostazione, vide quel dipinto, se ne invaghì a colpo di fulmine, fece fuori i due e se lo portò via”. Questore e colonnello si scambiarono perplesso e ironico sguardo. “È un personaggio, questo della Volvo, per cui mi è venuta una immediata affezione. Difficilmente sbaglio, nelle mie inquisizioni. Tenetemelo bene al fresco”. Li congedò, aveva da sentire il vecchio professore Franzò. Uscendo il questore disse: “Dio mio!”; e il colonnello: “Terrificante!”».

Si legge l’articolo di Vitiello – ed è scritto in ottimo italiano: non potrà mai concorrere, evidentemente, a un posto di procuratore della Repubblica. Dovrà contentarsi d’imbrattar fogli di carta con pensieri e parole (meglio così: e si prenda il suo Non giudicate, conversazioni con i veterani del garantismo, interventi di Corrado Carnevale, Giuseppe Di Federico, Domenico Marafioti, Mauro Mellini, introduzione di Giuliano Ferrara, edizioni Liberlibri, pag.106, 14 euro)  – e come un sospiro ti escono entrambe le esclamazioni, del questore e del colonnello. Ha ragione, in questi anni a tal punto si è stravolto e distorto il linguaggio usato per descrivere le cose di giustizia, che ad antidoto – e chissà! – occorrerebbe «un Karl Kraus per coglierne le mostruosità, un Flaubert per compilarne lo sciocchezzaio».

Sarebbe interessante e deprimente insieme compilare un Dizionario dei luoghi comuni della giustizia sulla falsariga del lavoro, lasciato incompiuto per sopravvenuta morte, da Flaubert. E pur limitando la ricerca alle questioni della giustizia, e alla idiozia che spesso la (s)governa se ne ricaverebbe uno straordinario sottisier. S’arriverebbe, probabilmente, a una conclusione che pure ci procura irritazione e fastidio: quella «di star lontano dai Tribunali» per quanto è possibile. Una raccomandazione contenuta in una lettera di Giovanni Amendola a Benedetto Croce del 1 giugno 1911. Consiglio, raccomandazione che, cent’anni dopo, si vorrebbe poter rigettare.

L’articolo di Vitiello ci ricorda invece che un certo timore, oggi forse più di ieri è giustificato, e quel consiglio se non proprio accolto, almeno va ponderato.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:53