
Il cul de sac sta a L’Aquila, negli storici Buzzi. Landa fornitrice di teste folli e pensanti, capaci, sulla piazza dell’Urbe, cioè d’Italia, di durare a lungo, malleabili e rocciosi al tempo stesso. Da D’Annunzio a Pannella a Vespa. Tutti a lamentare di non star co’ miei pastori, per poi guardarli da lontano. Proviamo ad andare vicino, dentro il capoluogo abbruzzese.
Qui è stato defenestrato come un malvivente il locale e conterraneo governatore. Dal palazzo alla cella, sotto il pubblico ludibrio, incluso quello del suo partito (democratico). Passano i giorni, i mesi, gli anni, quasi un lustro. Le prove non ci sono, il processo nemmeno. Che fanno i villici locali? Si affollano sotto le finestre dei togati che si sono inventati un caso inesistente? Reclamano i loro diritti elettorali vilipesi e calpestati? Chiedono la responsabilità dei media infanganti, delle istituzioni latitanti, dei pubblici funzionari ammattiti ? Quando mai. Senza pifferai, non ricordano nulla, non sanno nulla, non fanno nulla, sono nulla. Arriva il terremoto, il disatro, la distruzione. La normale reazione della pubblica amministrazione è nota: lenta, lontana, scostante, indifferente, contraddittoria. Basta guardare all’Emilia, dove non solo non arrivano fondi pubblici (e già si chiede l’Imu dal centro), ma nemmeno arrivano i fondi raccolti privatamente. Si sa che al nord la gente fa da sé.
Invece al sud la disgrazia è un danno del momento ed una controassicurazione per i dcenni a venire. Non toccate dunque la calamità naturale, su di essa si devono costruire ritardi ed indennizzi destinati a continuare nei decenni. Per un a volta invece a L’Aquila si volle fare diversamente. Intervenire immantentemente. Ricostruire rapidamente. Addirittura spostare un grande evento ed i grandi della terra sul posto per agevolare la solidarietà internazionale. Ovviamente il sindaco, il capomastro, il priovinciale, i regionale non volevano. Il danno, il pianto, la disgrazia era loro; mica la si può scippare così. Il governo preso da un attivismo inusitato, per evitare tutte le resistenze, scippò allora il timone alle solite mille assemblee ed ai soliti cento poteri coinvolti ed in nome dell’emergenza, con poteri cincinnateschi, diede una casa, finita e completa, ad una marea di gente. Così si fa in Germania o Francia, tra le lande nebbiose ed umbratili di gente insensibile. Così non si fa.
Si urta il campanile, si sottovaluta la disgrazia, si offende la lamentela, si facilita la speculazione, si minaccia di non tornare allo status quo ante. Ed infatti, poco alla volta, l’alleanza di un popolo tutto e dei media più avanzati e progressisti hanno svelato il complotto governativo. Per conto suo il governo ci ha rimesso miliardi e anche la faccia. Di commissione in commissione, di responsabilità in responsabilità, tutte le forze locali hanno difeso i resti, le pietre, le rovine in cui il terremoto aveva ridotto la città. Li hanno difesi con le unghie e con i denti, timorosi che il governo volesse rapidamente metter male anche a quelli, magari senza concertazione locale; infuriati che il governo volesse subito sgombrare, restaurare, ricostruire.
Come dire, rubare l’anima ad una città. Conseguentemente tutti i locali responsabili dei ritardi, della salvaguardia dei fossili, e dei tempi cami in cui nei decenni si calcoleranno gli indennizzi, sono stati premiati. Sono stati rieletti. La satira ha mortificato quei malfattori che volevano porre rimedio in tempi rapidi senza far comandare ai locali. Ed ora L’Aquila è sempre lì, distrutta. Hanno pure speso milioni per un teatro di legno dove tra le rovine ci si potrà radunare per ricordare le distruzioni. Il saggio ha detto “Mai ricostruire fuori “ e si è dimenticato di auspicare la ricostruzione, se non dentro, se non fuori, almeno da qualche parte. L’architetto, piano piano, il solito miliardario che costruisce per i nuovi potenti, come per i vecchi, per i democratici come per i dittatori, ha garantito che la costruzione, anche se costosa, è precaria, momentanea, assolutamente non definitiva. Certo, è di legno. S’incendiasse, nesuno s’azzardi a soccorrere, intervenire o risolvere.
I popoli hanno diritto alle loro disgrazie nei tempi di pianto e di aiuto da loro desiderati. Come a Messina, ad Avellino, alle falde del Vesuvio. È un cul de sac generale quello de L’Aquila, inspiegabile, immodificabile, irrazionale (o forse no). Lì l’Italia ha messo la testa, chiudendosi i lacci al collo, per poi gridare al fuoco al fuoco. Non si parli però di ardori rivoluzionari o di vampate popolari.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:31