
Walter Veltroni, qualora deciderà di sostenere Renzi, come Giacomo Mancini, king-maker di Craxi, di cui, nel 1976, appoggiò l’avvento alla segreteria del Psi, al posto del filocomunista De Martino? L’accostamento, proposto ieri nell’editoriale del Corriere della Sera, firmato da Angelo Panebianco, è suggestivo, ma merita qualche precisazione.
L’operazione, avviata da Mancini all’indomani di una bruciante sconfitta elettorale del Psi, si proponeva di modificare la linea politica del partito, troppo subalterna al Pci. E di rinnovare il gruppo dirigente. Tanto che l’ex segretario oppose un fermo rifiuto a quanti, e io tra loro, auspicarono un suo ritorno al vertice socialista. È vero, come ha scritto Panebianco, che Craxi non solo non ringraziò Mancini per il contributo, determinante, al suo successo. Ma, temendone la forte personalità e la stima di cui godeva nella base del partito, lo emarginò. E premiò i rampanti dirigenti craxiani, non sulla base delle loro capacità, bensì su quella dell’obbedienza. Questo culto della personalità, che Mancini, da solo cercò di contrastare, fu uno degli elementi più negativi del craxismo, che contribuirono alla tragica fine del Psi. A Renzi, mi permetto di consigliare di coinvolgere gli altri dirigenti e di non agire come “un uomo solo al comando”.
Quanto a Veltroni, la sua linea oscillante sull’appoggio, da dare o da negare, a Matteo Renzi, è condizionata non da strategie di ampio respiro, bensì dai tatticismi. Qualora, infatti, come ha rilevato Panebianco, l’ex Sindaco di Roma fosse coerente con la discontinuità, rispetto alla vecchia tradizione del Pci-che annunciò, 5 anni fa, quando nacque il Pd dovrebbe sostenere Renzi. Egli, invece, fa il Ponzio Pilato e non scende in campo nè a favore del sindaco di Firenze nè di Bersani. Veltroni sembra interessato più a evitare la “rottamazione”, sua e del vecchio gruppo dirigente, che al progetto di un forte rinnovamento della sinistra. L’auspicio è che i dirigenti, vecchi e nuovi, del Pd pensino di più alle prospettive del Paese che ai destini delle rispettive carriere politiche e alle rivalità interne. In primis, quella tra Veltroni e D’Alema, che da anni caratterizza, e condiziona, negativamente, le strategie del partito post-comunista.
*Presidente della Fondazione Giacomo Mancini
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:05