
Mercoledì prossimo per la prima volta un Capo dello stato italiano commemorerà in maniera solenne, al Tempio maggiore di Roma, la sinagoga della capitale, l’assassinio di un ragazzino ebreo di due anni, Stefano Gay Tachè, ammazzato un sabato, il 9 ottobre 1982 all’uscita della festa di “Shemini Atzeret”, che chiude le celebrazoni delle “Sukkot”. È un evento perchè sinora questo vero e proprio crimine contro l’umanità, se e quando ricordato, lo era sempre stato secondo i canoni del cosiddetto “lodo Moro- Giovannone”. Quello che si proponeva di non disturbare le manovre del terrorismo palestinese in Italia in cambio di una relativa rinuncia a colpire obiettivi italiani. Ma, secondo la vulgata che piace tanto a destra quanto a sinistra nelle sue propaggini estreme, senza contare gli integralismi islamici e cattolici, forse gli ebrei non sono veri italiani e quindi quel maledetto giorno del 1982 il “patto” fu infranto. Come peraltro lo fu anche nell’attentato del 1985 a Fiumicino al check in della El Al, altri venticinque morti provocati da un pazzo terrorista che sparò sulla gente all’imbarco.
Oggi a distanza di trenta anni cade il muro del politically correct e il nome di Stefano Gay Tachè potrebbe essere introdotto il prossimo 9 maggio tra quelli delle vittime del terrorismo di cui proprio in quella data si celebra la giornata della memoria. Certo nessuno dall’Italia chiederà con insistenza alla Libia di consegnare gli autori di quell’attentato, da trenta anni rifugiati a Tripoli e protetti prima da Gheddafi e oggi da chi lo ha spodestato, ma tant’è. Nella vita bisogna accontentarsi anche quando si parla di principi. Solo dieci anni orsono, e chi scrive lo ricorda benissimo, era l’ottobre del 2002, in piena epoca di guerra ad Al Qaeda e di post 11 settembre 2001, con i terroristi suicidi palestinesi che imperversavano in Israele perchè il tanto odiato “muro difensivo” ancora non c’era, proprio L’Opinione con il suo direttore Arturo Diaconale, invitò la comunità ebraica romana e l’allora ambasciatore israeliano Ehud Gol, al teatro Flaiano a commemorare l’attentato alla Sinagoga e a parlare dei recenti attentati in Israele. Ebbene il teatro era semi vuoto. All’epoca non c’era stato ancora l’“Israel day” di Giuliano Ferrara e persino dentro alla comunità si preferiva il basso profilo rispetto alla questione palestinese abbracciata senza sè e senza ma dalla sinistra e dalla destra, specie quelle più estreme.
Oggi, a dieci anni da quella delusione (anche un concerto della organista Livia Mazzanti a Santa Cecilia organizzato dalla comunità ebraica su mio suggerimento non portò di certo al tutto esaurito, n.d.r.), finalmente è arrivata una commemorazione solenne. In cui quell’unico oggi ex comunista, che persino nel 1982 prese le distanze in maniera netta da quell’attentato, quando molti suoi ex compagni di partito erano attestati sul “sì, ma dobbiamo capire le ragioni dei guerriglieri”, è diventato Presidente della repubblica. Ed aveva già fatto capire come la pensasse quando un paio di anni fa disse chiaro e tondo ai compagni dei centri sociali che antisionismo e anti semitismo sono la stessa cosa. Ma nel 1982 erano altri tempi: Pertini stringeva la mano ad Arafat che si presentò in Parlamento con la rivoltella nella fondina. E all’epoca solo Spadolini, che minacciò le dimissioni del suo governo, e Marco Pannella deprecarono la cosa.
Nel 1982 - qualche smemorato di Collegno dei commentatori nostrani forse potrà fare uno sforzo per ricordare - l’attentato alla Sinagoga avvenne in quel clima di odio alimentato da una verità di repertorio che si voleva accreditare rispetto alla strage fatta da Elie Hobeika e dai suoi falangisti cristiani nei campi profughi di Sabra e Chatila il 16 settembre.
Nel 2002 addirittura un paese, il Belgio, all’epoca sconvolto dallo scandalo dei “pedofili di stato” e delle protezioni ci cui godette il mostro Marcel Dutroux, cui non venne mai fatto un processo per evitare che tirasse in mezzo qualcuno di molto importante, ritenne di poter processare Ariel Sharon per crimini contro l’umanità e per complicità attiva in quella strage. Che oggi invece sappiamo, dalle dolosamente ignorate memorie della ex guardia del corpo di Hobeika, Robert Fatem (vedi libro disponibile gratuitamente su internet in pdf, From Israel to Damascus), essere stata molto probabilmente perpetrata da un agente doppio della Siria, questo Hobeikà, per fare ricadere la colpa sugli israeliani. Cosa che puntualmente avvenne specie nell’immaginario anti semita di coloro cui non sembrava vero potere avere un appiglio per prendersela contro Israele e invocarne la distruzione. Hobeikà poi come è noto venne fatto saltare in aria in Siria dove si era rifugiato protetto dai servizi di sicurezza siriani alla vigilia della sua testimonianza nel processo in Belgio. Alcuni dissero che lo aveva fatto saltare in aria il Mossad perchè non testimoniasse contro Sharon. Più verosimilmente, in un territorio controllato capillarmente da siriani ed hezbollah, il mandante poteva venire cercato tra chi aveva paura di qualche colpo di scena, magari una conferma da parte di Hobeikà delle accuse contenute nel libro della sua ex guardia del corpo. Sia come sia, iIl risultato di quella formidabile campagna di odio seguita all’inizio della prima guerra del Libano del 1982 fu un crescendo di attentati, di fatto “tollerati”, in mezza Europa, che culminò con quello in cui morì un bambino ebreo di due anni. Cui Roma si è degnata di rendere omaggio solo nel 2007 con una via intitolatagli dall’ex sindaco Walter Veltroni. Poi nulla più, solo il silenzio imbarazzato di quelle forze politiche e sindacali che avevano contribuito a creare il clima di odio. Come dimenticare ad esempio il corteo della Cgil da cui fuoriuscirono alcuni facinorosi che pochi giorni prima dell’attentato deposero una bara proprio davanti alla Sinagoga? Nella comunita’ ebraica romana molti dissero che idealmente quella bara simbolica sarebbe stata riempita il 10 ottobre 1982 dal cadavere di Stefano Gay Tachè.
Proprio sul numero di ottobre di Pagine ebraiche vi è una rievocazione puntuale di quel clima e l’anticipo di un nuovo saggio, a cura di Arturo Marzano e Guri Schwarz, che ricostruisce il main stream politico e pubblicistico di quegli anni. A cominciare dal linguaggio sempre più aspro dei media e dell’opinione pubblica verso la legittimità stessa dello stato di Israele, con riflessi significativi per tutto l’ebraismo italiano.
L’agguato mortale a Portico d’Ottavia sarà ricordato anche a Gerusalemme con una serata di riflessione, testimonianze e dibattito in programma mercoledì 10 ottobre alle 20 nella Sala degli Affreschi in Rechov Hillel. Nel corso dell’incontro, cui prenderà parte anche il neo ambasciatore d’Italia in Israele Francesco Maria Talò, saranno proiettati spezzoni di telegiornali e rubriche televisive, commenti e interviste dell’epoca, titoli delle testate più importanti.
Un florilegio di odio contro lo stato di Israele, per chi avesse la curiosità di saperlo. A moderare i vari interventi a Gerusalemme ci sarà David Pacifici, che ha raccolto e ordinato tutto il materiale. Tra gli altri sarà presente anche il dottor Moshé Zarfati, tra i primi a prestare soccorso ai feriti in quella drammatica circostanza. Spazio infine per le valutazioni di Gadiel Taché, fratello del piccolo Stefano e vittima egli stesso del commando palestinese che portò morte e violenza nel cuore di Roma. Gadiel, che per circa trenta anni non ha detto una parola, ha rotto il silenzio nel 2011, sempre in coincidenza con la ricorrenza nefasta, parlando con Pierluigi Battista al Corriere della sera e domandandosi come mai il nome del fratello non figurasse, ancora nel 2011, tra quelli delle vittime del terrorismo in Italia. Chissà se quest’anno anche questo tabù sarà sfatato e anche questo muro dell’ipocrisia islamically correct abbattuto.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:41