Telecom e scorporo, un altro cambio

Telecom Italia ha resistito per anni all’idea di scorporare la sua rete telefonica, ereditata dall’azienda pubblica, del valore di 15 miliardi. Lo ha fatto contro Agcom ed Europa, contro l’oggettiva impossibilità di fare da sola gli investimenti necessari per portarla alla velocità della larga banda, contro un messo di un governo che sulla questione quasi cadde mandando a gambe all’aria anche l’ad aziendale del tempo, contro le proposte di partenariato giunte nel tempo da interlocutori diversi come Chirichigno, Borghini e Bassanini, sostanzialmente identiche nella sostanza, contro la logica tecnologica, difendendo le virtù del rame oltre ogni limte e contro la logica organizzativa, mostrando per l’inclito di avere già adottato uno scorporo interno, blindato e neutrale dal nome open access.

Ed ora contrordine compagni, lo scorporo della rete è all’improvviso ben visto, considerato, spiegato in veline confidenziali passate alla stampa confindustriale ed amica, posta all’ordine del giorno del consiglio d’amministrazione. Come dire, cosa da fare, cosa gia’ decisa. Uno scorporo di ramo d’impresa gigantesco, coinvolgente tra i 18mila ed i 23mila lavoratori, con un incasso presumibile di 4 miliardi, poco più dei 3,4 di capitalizzazioni e prestiti interni ed esterni appena ricontratti.

Perché scorporare la rete tlc fissa nazionale ora che wifi e tv connected la riportano alla ribalta? Perché discutere di fibra ottica ora che anche l’Europa sta capendo che è di vitale importanza? Perché vendere il terzo polo televisivo ora che cresce sul mercato dopo aver fatto segnare rosso per anni? Perché ritrovarsi con il problema di cosa farsene dell’IT mentre tutti dicono di avere bisogno delle competenze informatiche? Perché disfasi delle piattaforme di social network mentre tutti gli investimenti vanno in social e comunicazione? E come mai costruire un recinto per il 187, tanto premiato dopo essersi disfatti del 1254 mentre tutti richiedono customer experience di alta qualità? Perché, perché, perché?

Inutile cercare le risposte tra i liberisti e sul mercato: le telco non rispondono a quella logica. Inutile appellarsi al merito. L’antico guru Decina l’ha detto: tra manager, guri e professori, abbiamo sbagliato tutto. Non per questo ce ne sia uno che se ne vada, anzi. Nemmeno si può dare la colpa alla politica. La partitica, inclusi i giornalisti, è  fatta da vecchi, che vedono la tecnologia come un fattore accessorio, un altro tipo di cena, comizio, manifesto, microfono. L’occasione per raccontare quanto siano strane le americanate e le cineserie. E nascondere il fatto che tira più la pubblicità di Google che quella del carrozzone Rai o del circo Ambra Iovinelli per le pubblicità Telecom.

I politici non capiscono la tecnoogia, la odiano se non quando si tratta di fare delle nomine. Allora non ci sono risposte? Non c’è dove cercarle? Certo che c’è. Le risposte si trovano nell’altissima e rarefatta politica dei gruppi finanzieri ed imprenditoriali, cui rispondono o si collegano i partiti maggiori. Il loro dibattito e lotta vive su un piano dove lavoro e sviluppo sono variabili indipendenti. Perché non è mai importante cosa si fa, si tiene o si scorpora, ma soltanto chi lo fa e con chi. Anche e soprattutto in assenza di quel peso che sono i lavoratori.  

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:11