A proposito di Sallusti e giustizia

Che il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti finisca in carcere per scontare la condanna inflitta in primo e secondo grado e confermata dalla Cassazione, oppure no, perché la sentenza viene congelata, a questo punto è secondario. Sallusti è stato condannato nella sua qualità di direttore responsabile, per omesso controllo: il giornale (all’epoca dei fatti dirigeva Libero) ha pubblicato un articolo di “Dreyfuss” alias Renato Farina, ritenuto diffamante. Se la legge è essere uguale per tutti, la è chiunque lo commetta, cittadino normale o giornalista.

C’è tuttavia da chiedersi che giustizia sia, una giustizia che impiega oltre due anni per stabilire se una persona è stata diffamata o no: dopo oltre due anni aver ragione o torto lascia il tempo che trova. Premesso tutto questo, la pena dovrebbe essere commisurata all’entità del reato, e un anno e due mesi di carcere per un articolo scritto da altri, pare davvero eccessiva. Ora forse è un sospetto infondato, ma come ha detto una volta Andreotti, a pensare male si fa peccato, ma non si sbaglia. La querela contro Sallusti è stata intentata da un magistrato. Se fosse stata promossa da un semplice cittadino la condanna sarebbe stata così pesante? In questo caso, ci si permette di essere sospettosi anche rifacendosi a una personale esperienza.

Tra le varie cose accadute a chi scrive, c’è stata anche l’esperienza di direttore responsabile del Male. Qualcuno lo ricorderà: era il settimanale satirico che ha segnato un’epoca. In quei mesi di direzione, ho collezionato una trentina e più tra denunce e querele, per i “reati” più strani: dalla divulgazione di segreto militare perché il settimanale aveva riprodotto una cartina de La Maddalena reperita alla Biblioteca Nazionale, a tutta la gamma delle possibili diffamazioni e oltraggi. Tutti i procedimenti si sono risolti; meno uno. Una querela, per un articolo che non avevo scritto io, anche questo firmato con pseudonimo. Articolo pesante: si sosteneva che una tale persona era un “pezzo di m...”, al punto che al suo passare l’olfatto si accorgeva della sua presenza. Quella persona ebbe lo spirito di presentare querela con ampia facoltà di prova, ed era evidente che provare quell’affermazione non ci sarebbe riuscito nessuno.

Il Male lo dirigevo solo nominalmente, perché in redazione non disponevano di un professionista iscritto all’albo, e mi ero prestato alla bisogna, in omaggio a un’antica tradizione libertaria. Era ben specificato che lo facevo solo per consentire che il giornale potesse uscire. Bene: per quella battuta, greve ma sempre battuta, ho rischiato concretamente la galera, perché sia in primo che secondo grado sono stato condannato a due anni e sei mesi senza la condizionale. Poi, arrivato in Cassazione qualcuno si deve essere messo una mano sulla coscienza, deve aver pensato che non aveva senso una condanna di quella portata per quel “reato”; hanno così individuato un cavillo e rimandato il processo in Appello, e lì per fortuna si è perso, prescritto. Si sarà compreso, che la persona in questione era un magistrato. Il mio sospetto è che se si fosse trattato di “altra” persona, appartenente ad altra “categoria”, me la sarei cavata prima, e con meno problemi. Tutta questa vicenda avrebbe un aspetto positivo se servisse per avviare una profonda riflessione sullo stato della giustizia in Italia.

L’ultima condanna è di pochi giorni fa, contenuta nel rapporto del Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks. Sostiene che per l’Italia è tempo di trovare «soluzioni durevoli» allo stato, drammatico e inaccettabile della giustizia. Un po’ tutti sappiamo dello stato incivile in cui versano le carceri, le condizioni indegne, che contrastano non solo con un elementare criterio di umanità e con la Costituzione in cui sono costretti a vivere i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria; sappiamo tutti che nei 206 istituti di pena sono stipati oltre 66mila detenuti, quasi la metà in attesa di giudizio; e almeno la metà di quel 47 per cento sconta ingiustamente una pena preventiva: la pena preventiva, di per sé è ingiusta, ma l’ingiustizia diventa ancora più atroce quando si viene infine assolti per non aver commesso il fatto… Non è però su questo che richiama l’attenzione Muiznieks, che invece punta l’indice sull’«eccessiva lunghezza dei processi».

Un problema annoso, scrive, che si ripercuote negativamente «non solo per le persone interessate e per l’economia italiana, ma anche per il sistema europeo di protezione dei diritti umani nel suo insieme, a causa della continua iscrizione di ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo». Quanto incide nell’economia questa inefficienza strutturale? Due economisti, Silvia Giacomelli e Carlo Menon, hanno calcolato che a parità di altri fattori, con una riduzione della durata dei processi civili del 50 per cento, nel settore manifatturiero le imprese sarebbero in media più grandi di circa il 10%. Il malfunzionamento della giustizia civile, ricordano, «riduce il grado di tutela dei contratti, e quindi disincentiva le relazioni contrattuali. Per le imprese, rende più rischioso intrattenere rapporti con agenti esterni, quali ad esempio fornitori o prestatori di servizi». Gli imprenditori, non potendo fare affidamento sul sistema giudiziario, affrontano rischi maggiori nell’interagire con nuovi partner commerciali con i quali non hanno ancora costruito un rapporto di fiducia.

Inoltre, l’inefficienza della giustizia può determinare un peggioramento delle condizioni di finanziamento, poiché i creditori sono meno tutelati a fronte di eventuali insolvenze e quindi richiedono un premio per il rischio più elevato. La Banca mondiale, per quel che riguarda i tempi dei processi, colloca l’Italia al 148 posto su 183 paesi. Siamo sotto Vietnam, Gambia, Mongolia… Gli oltre sei milioni di processi civili ci costano qualcosa come 96 miliardi di euro. Secondo l’ufficio studi di Confindustria questa situazione incide per circa il 4,9 per cento del Pil. Una situazione che spaventa e allontana gli investitori stranieri, deprime quelli italiani. Per tutelare un contratto in Italia occorrono in media 1200 giorni. In Germania, Gran Bretagna e Francia si oscilla tra i 394 e i 331 giorni. Anche con il penale non si scherza: i risarcimenti per ingiusta detenzione (e ottenerli è un supplemento di pena), costano circa 46 milioni di euro l’anno.

Capitolo a parte quello delle prescrizioni: sono 165mila circa ogni anno, riguardano anche reati gravi; è un’amnistia quotidiana, silenziosa, di classe che si consuma da anni. Non è solo un’ingiustizia nei confronti del cittadino che si vede negato un diritto di cui ha diritto; è anche un ulteriore costo sociale: altri 84 milioni di euro l’anno che se ne vanno in fumo. Un enorme fiume di denaro che paga la collettività, che giorno dopo giorno esce dalle nostre tasche. Dal caso Sallusti al caso giustizia in Italia. Sarebbe utile, necessario e opportuno che si avviasse un grande dibattito, una grande riflessione su quella che il presidente della Repubblica più di un anno fa definì «impellente urgenza», per poi scegliere di non parlarne più.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:58