La rivoluzione liberale è ancora possibile

«Siamo qui ad avviare un percorso per aggregare politici di aree diverse con l’obiettivo di realizzare cinque grandi riforme indispensabili per il nostro paese», come esordisce Arturo Diaconale, direttore de L’Opinione e organizzatore sabato scorso ad Assergi del convegno: “Un patto bipartisan, cinque riforme per l’Italia”. «Penso che intorno al comune sentire del pensiero liberale si possano mettere insieme soggetti che nella prossima legislatura si impegnino per portare avanti queste riforme». Mai come oggi, tra crisi economica e fallimento dello stato buracratico, è attuale il tema delle riforme liberali.

A questo proposito, abbiamo sentito alcuni esponenti del centrodestra che, insieme al senatore del Pd Enrico Morando, hanno partecipato all’incontro. «Il fallimento della rivoluzione liberale è colpa nostra - ammette il senatore Pdl Giancarlo Galan - e di questo dobbiamo chiedere scusa alla gente che ha creduto a noi. Ci sono tante attenuanti, ma la mia tristezza aumenta dal fatto di essere qui a pochi chilometri da Onna, dove il 25 aprile di soli due anni fa, i partigiani misero il fazzoletto al collo di Berlusconi. Ecco, quel giorno la rivoluzione liberale era vicina, si poteva fare, eravamo a un passo. Non si è fatto nulla o quasi. Questa è la mia disperazione: la storia non ti perdona di non aver fatto quello che si poteva fare». «Effettivamente - rilancia Antonio Martino, deputato del Popolo della Libertà - il nostro programma del ‘94, che era un programma di radicale riforma liberale, è stato in larga parte inattuato. Dobbiamo chiederci perché: è mancata la volontà o ci sono stati degli impedimenti che hanno bloccato il processo di riforma?». Prosegue Martino: «Non dico che non abbiamo commesso errori, ma in larga misura si è trattato di ostacoli. In primis perché abbiamo mai avuto una maggioranza composta da un solo partito, e quindi siamo dovuti arrivare a compromessi con i nostri alleati, che in qualche caso hanno bloccato le riforme perché non le condividevano. In altri casi è stato il sistema istituzionale che le ha bloccate, perché il tempo medio, da quando si prende una decisione a quando si riesce a tramutarla in realizzazione, si aggira sui tre anni. In una la legislatura di quattro, cinque anni quando va bene, è quasi impossibile riuscire a fare le riforme. Per questo riteniamo che la più importante delle riforme sia quella istituzionale». Caustico, Martino, quando dichiara che: «Plus ça change, plus c’est la même chose, come si dice in politica. Il fatto è che è l’occasione che fa l’uomo politico».

Un restart è possibile per l’onorevole Giuseppe Moles, Pdl: «Si sente l’esigenza in questo momento di ripartire. Anche a causa di tutto cio che è accaduto negli ultimi anni o negli ultimi mesi o negli ultimi giorni, è bene che in qualche modo si ritorni a quella che era la nostra ispirazione. Se le nostre proposte sono state annacquate nel tempo bisogna in qualche modo farle ritornare all’ordine del giorno perché siamo dalla parte giusta della storia: sono le nostre idee, sono i concetti - dice ancora Moles - che hanno portato noi a vincere le elezioni venti anni fa. È il caso di ricordarlo oggi e di ripartire».

«Sono stati traditi quelli che erano gli ideali che hanno portato alla seconda repubblica - rilancia l’onorevole Moles -, quelli che erano i programmi che hanno portato a un rinnovamente e a una rivoluzione. Se la rivoluzione liberale è stata interrotta, evidentemente non è stato per colpa delle persone di buona volontà che ci hanno creduto, ma a causa di comportamenti o atteggiamenti della politica italiana che ancora una volta hanno bloccato questa rivoluzione». La rivoluzione liberale è stata dunque una rivoluzione incompiuta? La seconda repubblica sta affondando più o meno come era affondata la prima, con una crisi economica e un sistema politico screditato?  «Non esattamente - ribatte l’onorevole Deborah Bergamini - però è vero che ci sono tante analogie con quello che è successo ormai venti anni fa». Il rischio, secondo la deputata del Pdl, «è quello di perdere la possibilità di ammodernare il paese. Questi anni ci stanno dimostrando quanto è difficile cambiare l’Italia, ma questo non può essere un alibi. Invece per molti lo è stato. Credo che si debba ripartire completamente: o la politica mostra immediatamente la capacità di autorigenerarsi, oppure dimostrerà di essere è inutile, quando non è dannosa. Non può essere così, in una democrazia come la nostra» dice Bergamini. Ma, prosegue, «o i partiti politici tornano a essere quei serbatoi di selazione della classe dirigente del paese che operano in piena trasparenza anche e soprattutto per quanto riguarda i finanziamenti pubblici, oppure non ci sarà mai alcuna credibilità nel momento in cui ci presenteremo con una piattaforma programmatica per governare i prossimi anni».

Nel Partito Democratico, tra scossoni e smottamenti vari, un rinnovo della classe dirigente è in comunque in atto. Nel Pdl, al contrario, sembra ancora stentare il ricambio generazionale, nonostante molte siano le pressioni in atto. «In questo debbo dire che non ci sono molte analogie tra il Pd e il Pdl» prosegue Bergamini. «Il Pd per decenni è rimasto legato a figure di cosiddetta leadership che sono state quelle. Ha cambiato nome mille volte, ha cercato di cambiare la forma del proprio contenitore, ma chi ha guidato il Partito democratico in questi lunghi anni sono sempre state le solite persone. Quindi è abbastanza fisiologico che a un certo punto intervenga qualche cosa, che si chiami Matteo Renzi o come vogliamo, a sovvertire un ordine che è andato avanti per troppo tempo. Nel Pdl non è cosi. Certo, ci sono i formattatori ed è bene che ci siano, perché fungono da pungolo, però non si può dire che il Pdl, che ovviamente è un partito molto più giovane, non abbia proceduto a un forte ricambio. Da parte nostra ci deve essere la prontezza di capire che tutto si deve poter rigenerare in questo scenario politico. Però io credo che da questo punto di vista noi siamo avanti rispetto al Pd». Di diverso avviso Martino, ben più pessimista della collega sull’evoluzione dall’altra parte della barricata: «Le convulsioni all’interno del Pd non le chiamerei un processo di rinnovamento interno: semmai ci sono conati di cambiamento, ma anche forti pressioni per impedirlo».

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:15