
Oggi che le fogne regionali spurgano all’aperto ed appestano la nazione, è doveroso ricordare alle verginelle esterrefatte (politici, istituzioni, cittadini) i colpevoli di averle volute, e perché. Non era mai stata formulata con tanto realismo, quasi tucidideo, la vera ragione storica della creazione delle regioni. Adesso sappiamo a chi e perché siamo debitori dell’ente che ha avviato la dissoluzione dello stato italiano e il dissesto finanziario, e frenato lo sviluppo.
«Il cammino verso l’alleanza tra Dc e Pci fu lento ma inarrestabile. Fu d’aiuto la convinzione che non si poteva tenere la sinistra parlamentare, un movimento così potente, fuori dalle sfere del potere. Per questa stessa ragione, in effetti, Mariano Rumor aveva avuto, anni prima, l’idea di sbloccare l’istituzione delle regioni, le quali furono dunque varate per motivi eminentemente di equilibrio politico, non perché le si ritenesse necessarie per una migliore organizzazione dello stato. Insomma, bisognava dare un po’ di potere ai comunisti lì ove erano più forti: in Toscana, in Emilia Romagna, in Umbria» (Francesco Cossiga, La versione di K, Milano, 2009, pag. 109). Siamo pertanto autorizzati a considerare le regioni alla stregua di un osso lanciato dai democristiani ai comunisti per placarne la fame di potere. Quanto era decaduta la Dc dai tempi di De Gasperi e Scelba!
Sulla creazione delle regioni fu combattuta un’autentica battaglia politico-parlamentare. Gli sconfitti (liberali, missini, monarchici) opposero persino un durissimo ostruzionismo. Ma invano. I vincitori (democristiani, repubblicani, socialdemocratici, socialisti, comunisti) erano troppo forti per non prevalere. Oggi Cossiga ci svela che, nonostante il terribile scontro, fu tutta una farsa recitata con i toni della tragedia. L’ennesima pagliacciata all’italiana. Gli stentorei attori della maggioranza regionalista adducevano in sostanza quattro motivi. Esiziali, a loro dire. Bisognava attuare la Costituzione (22 anni dopo!), decentrare lo Stato, risparmiare sulla spesa pubblica e, per soprammercato, ridurre la burocrazia: impiegati e apparati. Vastissimo programma, come abbiamo potuto vedere. E’ accaduto l’esatto contrario.
A questi quattro pilastri motivazionali, si aggiungevano poi le giaculatorie di contorno, del tipo: avvicinare lo stato ai cittadini, aumentare la partecipazione popolare, responsabilizzare l’amministrazione, accrescere la democrazia dal basso (come se esistesse pure la democrazia dall’alto). Questa bella frittata è stata rivoltata quarant’anni dopo. Ora la chiamano federalismo. Dal regionalismo al federalismo, usando gli stessi argomenti, più uno stantio presentato come novità, ma altrettanto improbabile: la diminuzione delle tasse. Con l’aggravante però che stavolta nessuno si è opposto davvero. Meravigliarsene è impossibile. «Gli Italiani ignorano soprattutto la loro stessa storia. Quasi mai s’accorgono di ripeterla. Eppure, davanti al totem federalista, qualche dubbio avrebbe dovuto affiorare nella loro testa, se il ministro dell’economia ha dichiarato in Parlamento, cioè al cospetto della nazione, di non avere la minima contezza di quanto potrà costare ai contribuenti il nuovo trastullo della politica!» (estratto da Pietro Di Muccio De Quattro, Il Bel Paese con brutti mali, Edizioni Acherdo, 2012, pag.42)
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:05