
Le sorti della Rai sono in mano a Corrado Passera, il ministro di Sviluppo e trasporti che siede a via Veneto nell’ufficio ad angolo che è stato di Giulio Tremonti e Romano Prodi. Quello che preoccupa di più non sono tanto i 200 milioni di rosso di fine anno. È il discorso economico-finanziario-produttivo nel suo complesso dell’azienda radiotelevisiva pubblica che non torna. L’azienda pubblica è in profondo stato di crisi, è vecchia, tecnologicamente arretrata da museo di archeologia televisiva rispetto ai concorrenti anche piccoli, è infarcita di generali soprattutto a livello giornalistico e dirigenziale. E dipende ancora eccessivamente dai partiti e dalla politica.
Nonostante 11.589 dipendenti, più altri 1.660 lavoratori con contratto a tempo determinato (ma i sindacati nella fase del rinnovo del contratto dei lavoratori non giornalistici parlano di 15mila unità), di cui circa 2mila giornalisti gli attuali vertici di viale Mazzini (nuova presidente Anna Maria Tarantola, nuovo direttore genere Luigi Gubitosi e nuovo consiglio di amministrazione) hanno avuto il coraggio nell’ultimo cda di nominare due esterni a posti di responsabilità con trattamenti che superano i 294mila euro lordi annui fissato dalla legge per i manager pubblici. Si tratta del nuovo direttore finanziario Camillo Rossetto che viene da Fiat Industrial e del direttore delle relazioni esterne Costanza Esclapon che arriva da Alitalia per prendere il posto di Guido Paglia che va in pensione. L’unico commento critico è stato quello del consigliere Antonio Verro, che ha rilevato la contraddizione tra la necessità di effettuare risparmi e la voglia di avere accanto persone di fiducia.
Sul perché la Rai presenti bilanci in rosso il discorso è lungo. Solo nel 2011 il bilancio venne presentato in pareggio (anzi + 4 milioni) dall’allora direttore generale Lorenza Lei (passata ora alla Sipra) e approvato anche dal presidente Paolo Galimberti con le sole riserve del consigliere Nino Rizzo Nervo. Si veniva da 5 anni di rosso. Ora la colpa viene data alla diminuzione del flusso pubblicitario (fenomeno generale alle tv e alla carta stampata) e ai diritti televisivi acquistati dalla Rai per gli Europei di calcio e le Olimpiadi di Londra (105 milioni). Non è proprio così. Chi ha seguito l’esclusiva Rai sul calcio europeo (le partite degli azzurri giunti in finale hanno attirato milioni di ascoltatori) sa che erano infarciti di spot pubblicitari, anche eccessivi, e che dell’eccessiva pletora in trasferta (hotel, colazione, pranzo e cena) di commentatori e consulenti esterni se ne poteva fare a meno. Il costo delle Olimpiadi è stato parzialmente recuperato con la cessione a Sky di parte dei diritti dei mondiali in Brasile 2014.
Anche nei palinsesti della nuova stagione si ritrovano tanti personaggi, consulenze e figure inutili o superflue. Manca un piano industriale che sappia individuare dove e come razionalizzare i costi. È riduttiva l’ipotesi del dg di mandare una sola telecamera Rai per riprendere le immagini per tutti i telegiornali (una piccola telecamera digitale può sostituire una troupe, ha detto Gubitosi senza porsi il problema delle sedi regionali, delle distanze da Saxa Rubra alle sedi istituzionali, dei 194 giornalisti della radio). Come mai il costo degli appalti esterni è aumentato? Quali sono le cause che hanno fatto aumentare il costo del lavoro di 2,5 milioni senza il rinnovo del contratto dei dipendenti non giornalistici e senza premio di risultato? Il ragionamento di risanamento va portato allora sul contratto di servizio in scadenza a fine anno, sull’evasione del canone e sul perché la Sipra ha incassato solo 740mila euro del milione e mezzo preventivato.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:52