L'Italia e la Fiat, una storia di amore e odio

La corsa all’ipocrisia politicamente corretta s’è scatenata alla notizia (poi smentita) dell’imminente dismissione dell’intera produzione Fiat in Italia. Il governo ha detto che nessuno sapeva nulla, soprattutto che “Marchionne ci ha imbrogliati”. L’amministratore della Fiat lo va ripetendo da almeno due anni che in Italia ormai mancano sia i margini per produrre che per mantenere una rete commerciale. Ergo, in Italia è anti-economico sia mantenere gli impianti che vendere dei veicoli: ormai nel Belpaese insiste quel prezzo di fuga che impedisce la fiducia sia nel manifatturiero che nei commerci. Aspetti che sono noti a tutti, compreso il capo del governo che d’economia dovrebbe capirne qualcosa.

Poi s’aggiungono le arcinote congiunture internazionali (la crisi) e, dulcis in fundo, il rapporto tra il nostro Pil ed il nostro debito pubblico. Questi ultimi aspetti non sono più un affare solo di noi italiani, con la cessione di sovranità all’entità europea e con i sempre più ferrei vincoli di bilancio l’Ue ha chiesto all’Italia (e non solo) un piano di rientro e una politica di rigore con tagli della spesa e licenziamenti. Ma a che servono i licenziamenti? È semplice, sintetizzando al massimo il pensiero di Milton Friedman (l’anti-Keynes), padre della teoria monetarista e Nobel per l’economia, l’Europa chiede che qualsiasi intervento dello stato a sostegno di imprese e famiglie venga abolito e per favorire il cosiddetto “mercato libero” e la conseguente crescita economica che spontaneamente si genera dopo le grandi ondate di licenziamenti. Friedman sviluppò questa teoria dopo aver studiato l’efficacia del ruolo del tasso naturale di disoccupazione sulla curva di Phillips: così se per Keynes l’inflazione aiuta la riduzione della disoccupazione, per Fiedman è l’esatto contrario. Ergo, i licenziamenti in massa farebbero scaturire le energie per creare nuove imprese, soprattutto crescita della massa monetaria senza aiuti europei o comunque governativi.

In un primo momento l’Ue non aveva chiesto all’Italia di fare come la Grecia, cioè di presentare all’Unione europea un drastico e preciso piano licenziamenti. Oggi, dopo le non più procrastinabili chiusure nel minerario e nel siderurgico, lo spettro della disoccupazione di massa aleggia anche sulla Fiat. E già un annetto fa si trattava d’un futuro facilmente preconizzabile, ma in un paese come l’Italia, da 65 anni governato da sindacati e partiti non si credeva potesse essere vero il progetto di fuga della Fiat dall’Italia. Oggi che, 50mila licenziamenti tra Alcoa, Fiat, Fincantieri e Finmeccanica sono realtà, nessun politico o “tecnico” ammette che questa pillola amara era già stata prescritta da tempo. Ma il governo sa anche che se venissero segati 50mila posti nel privato, l’Europa difficilmente ricorderebbe all’Italia di tagliare 50mila dipendenti del pubblico impiego (stato, regioni, province, comuni ed enti vari). È evidente la difficoltà in cui brancola l’esecutivo: è difficile dire al paese che i licenziamenti, sotto forma di riduzione dei costi del lavoro nel pubblico impiego come nella grande impresa, ci sono stati richiesti dall’Europa. Molto più facile usare come capro espiatorio l’ad di Fiat, Sergio Marchionne. 

Certo è oltremodo difficile che ministri come Fornero, Severino e Passera non sapessero delle fughe di aziende come la Fiat: evidentemente il passaggio al ruolo di ministro da quello d’avvocato-giuslavorista-manager ha generato in loro un devastante amnesia.

Del resto, la storia del pasticcio Fiat non nasce oggi. Si genera in più di 50 anni di reciproche coperture tra governi e vertici dell’industria torinese. La Fiat ha spesso affermato (almeno dal 2000 ad oggi) che necessita l’“armonizzazione tra le diverse realtà del gruppo”. Un gruppo industriale che va dalla Fiat Industrial alla Magneti Marelli, passando per Fiat auto, Alfa Romeo, Autobianchi (ex Bianchi moto e auto), Lancia, Abarth, Iveco, Ferrari, Maserati, Piaggio, Teksid... ad ancora treni, macchine agricole, movimento terra (Fiat Allis), costruzioni (Impregilo), nautica, settore finanziario. Negli anni della Prima Repubblica e col muro di Berlino ancora in piedi, il posto in Fiat veniva considerato “quasi statale”. I governi aiutavano la fabbrica della famiglia Agnelli perché era un postificio utile per la pace sociale. Nella Seconda Repubblica, e in piena crisi, sorge il modello Pomigliano e governi di destra e di sinistra hanno dichiarato la propria disponibilità ad ogni iniziativa della Fiat, e per garantire la flessibilità: l’alternativa era sempre la fuga della Fiat dall’Italia, e perché nel mondo, in ben 61 nazioni, insitono stabilimenti Fiat Industrial, Magneti Marelli, Fiat auto, Alfa Romeo, Autobianchi (ex Bianchi moto e auto), Lancia, Abarth, Iveco, Ferrari, Maserati, Piaggio, Teksid... ad ancora treni, macchine agricole, movimento terra (Fiat Allis), costruzioni (Impregilo), nautica, settore finanziario. Oggi la Fiat non ha più bisogno dell’Italia, e nessun sindacato o governo può più scongiurare la fuga del Lingotto dall’Italia.

Il governo Monti avrebbe forse gradito che continuasse il gioco delle parti, ma oggi il coltello dalla parte del manico non l’hanno sindacati e partiti. Oggi è la Fiat che decide quando e come mettere per strada le maestranze, e nessun governo può impedire che questo avvenga, perché siamo in Europa e c’è la libertà di aprire e chiudere uno stabilimento. L’era dell’assistenzialismo post-bellico è tramontata, ma in molti non se ne rendono conto. La Fiat viene ancora spacciata agli occhi del mondo come il maggiore gruppo industriale italiano, che vanta soprattutto significative attività all’estero: è presente in 61 nazioni con 1063 aziende che impiegano oltre 223.000 persone. Il gruppo batte in ritirata dall’Italia ma cresce nel mondo, d’italiano ha ora davvero poco.

Ora vorremmo chiedere a Cgil e sinistra radicale dove fossero quando la Fiat acquisiva, uno alla volta, tutti i marchi automobilistici italiani, spazzando via tutta la concorrenza. Operazione pagata dallo Stato italiano, e con la promessa che l’ampliamento avrebbe garantito il mantenimento dei posti di lavoro. Con gli anni quello della Fiat è assurto a ruolo di monopolio del settore automobilistico, e non solo. Se oggi la Fiat fuggisse via, in Italia s’estinguerebbe una centenaria tradizione automobilistica. E perché il Belpaese non era noto nel resto del mondo per le sue utilitarie, bensì per auto sportive, eleganti, fuoriserie, artigianali. Un prodotto che non veniva approntato da migliaia di stanche maestranze sottopagate dal Lingotto, bensì da poche centinaia di meccanici e carrozzieri in forza a Maserati, Ferrari, Lamborgini, Ansaldo, Lancia, Abarth, Piaggio, Guzzi, Agusta, Ducati, Benelli, Morini, Innocenti, Ceccato, Brembo. E non si riesce nemmeno a citarli tutti. Per non parlare del vastissimo indotto, che andava dalla componentistica elettrica Carello alla Altissimo fino ai maestri sellai e tornitori. Il monopolio Fiat ha inesorabilmente determinato la desertificazione di tutto questo pulviscolo artigianale ed industriale, che negli anni ‘50 e ‘60 contribuì non poco al Pil italiano. Oggi, ironia della sorte, il modello delle produzioni artigianali indiane copia da Piaggio e Innocenti, e ci vende scooter simili alle nostre vespe e lambrette. Purtroppo non possiamo dimenticare che quarant’anni fa la Fiom predicava l’estinzione delle piccole aziende automobilistiche, considerando le acquisizioni fatte dalla Fiat come una manna per i lavoratori, da contrattualizzare tutti nella Fiat. Sindacati e politica hanno generato il mostro Fiat, e oggi l’operaio ne pagherà le conseguenze. Ora la Fiat ha deciso di produrre auto di lusso, ma in Usa (comprese Alfa Romeo, Ferrari e Maserati) ed utilitarie in Brasile, Polonia e Cina. Poi, a parte la Juventus che è della famiglia Agnelli, tutto il resto ormai è fuori dall’Italia.

Rammentate l’Italia che faceva la voce grossa col Brasile per il caso Battisti? Rammentate l’indignazione italiana che non riusciva a valicare l’Atlantico e si fermava tra i vicoli della politica e delle polemicucce giornalistiche? Nemmeno la rabbia dei parenti delle vittime sembrava interessare molto alla grande stampa internazionale, piuttosto alimentava le pagine di storia nelle testate più conservatrici. L’Italia smuoveva il proprio ambasciatore in Brasile, imitando il rumore di carrozze (u scirrabball’) che erano soliti fare i nobili nel Mezzogiorno borbonico, per dimostrare potenza al loro passare per paesi e contrade. Così l’indignazione diplomatica venne percepita dagli stessi brasiliani (popolo neolatino) come un “rumore di carrozze”, nulla d’importante, incapace di creare attriti sui grandi affari. Sui contratti stretti tra Fiat e governo del Brasile, col bene placet della Francia, di quel salotto buono d’oltralpe che gradisce solo la dirigenza piemontese e snobba il resto dello Stivale.

Fonte la stessa Fiat spa, avveniva la posa delle prima pietra del nuovo stabilimento Fiat nel complesso industriale portuale di Suape (regione metropolitana di Recife) festeggiata dall’ex presidente della Repubblica brasiliana Luís Inácio Lula da Silva e dall’Amministratore Delegato del Gruppo Fiat Sergio Marchionne. Un festeggiamento, un atto simbolico, che s’è svolto presso il molo 5 del porto di Suape alla presenza di circa 1.000 invitati tra cui autorità pubbliche brasiliane e membri della comunità imprenditoriale italiana: un festeggiamento in piena regola che si consumava nell’ultimo periodo della presidenza Lula, mentre la corte brasiliana veniva chiamata ad esaminare il caso Battisti. Ed a chi parlava dell’estradizione di Battisti, il presidente Fiat per l’America Latina (Cledorvino Belini) metteva in rilievo i vantaggi economici e sociali che scaturiranno dall’iniziativa economica. Investimenti per 3 miliardi di reais brasiliani, mentre la capacità di produzione di 200 mila veicoli l’anno partirà dal 2014. «Può il caso Battisti occupare il nostro tempo?», domandava un addetto Fiat ad un alto funzionario Ice.

La Fiat sta investendo in Brasile, tra i 2011 e il 2014, 7 miliardi di euro: destinati ad aumentare di 150 mila veicoli la capacità annuale di produzione dello stabilimento di Betim, a Minas Gerais, che arriverà quindi a produrre 950 mila unità l’anno. Oggi la politica italiana non può impedire che venga chiusa la Fiat in Italia, piuttosto è giunta l’ora che gli operai si procurino il lavoro senza la mediazione di politici e sindacalisti: il lavoro libero, tra carrozzerie ed officine, che la classe operaia ha sempre guardato con orrore.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:17