La sindrome dell'azzeccagarbugli

Erano quasi due secoli che gli avvocati di tutte le latitudini speravano di scrollarsi di dosso la “sindrome dell’azzeccagarbugli”, quell’accusa letteraria lanciata da Manzoni che aveva identificato la professione forense con la predisposizione a complicare i fatti per poterci sopravvivere. Finalmente in questi giorni la cosa si è risolta, ora ci sono i procuratori delle Repubblica, e qualche vassallo giornalistico a pretendere a gran voce il titolo, e senza vergogna.

Negli ultimi giorni, infatti, alcuni procuratori, tra cui l’onnipresente Ingroia che ancora non si è imbarcato per il Guatemala, si sono chiesti tartufescamente cosa ci fosse dietro le illazioni che un periodico Mondadori ha avanzato a proposito del contenuto delle conversazioni intercettate del presidente della Repubblica. Avanzato il quesito, gli stessi pm hanno tosto individuato l’esistenza di “menti raffinatissime” che da dietro le quinte ordiscono l’attacco al Capo dello stato, e hanno poggiato il loro ragionamento su di un ingenuo e paradossale lapsus, mirabilmente illustrato dal procuratore Messineo, che più o meno suona così: «Se lo scoop lo fa Panorama noi non c’entriamo nulla, quindi c’è del marcio in Danimarca!».

Il che, se le parole hanno un senso, intanto dimostra quello che noi poveri mortali dell’Unione delle Camere penali sosteniamo da un bel po’, e cioè che esistono dei circuiti informati (e dunque dei giornalisti e delle testate) con cui le procure hanno rapporti privilegiati, al punto che a dimostrazione della propria estraneità ad un certo fatto il procuratore può ben dire: «Occhio, non è dei nostri». Insomma, basta vedere chi fa gli scoop per capire chi glieli ha passati. Nella fattispecie, però, il ragionamento è suicida per chi lo fa, non solo perché la prima illazione sul contenuto l’ha avanzata Di Pietro, ma anche perché mette in ombra tutto ciò che avvenne al momento della “fuoriuscita”.

E qui c’è poco da chiarire: quando “fuoriuscì” la faccenda, la circostanza non era nota ad altri se non agli investigatori. E non poteva esserlo, se non altro per il fatto che quelle conversazioni erano contenute in un fascicolo rimasto in indagine, e non in quello depositato ai 12 indagati di cui si chiedeva il rinvio a giudizio. Ciò senza dimenticare che, per il vero, a confermare l’esistenza di quegli atti, anche se con la sottolineatura della loro assoluta irrilevanza, fu proprio la Procura di Palermo, che anzi ci tenne a sottolineare di averli attentamente valutati per stabilirne il peso processuale. Insomma, visto che era dentro un fascicolo che magari non sarà mai depositato, come mirabilmente illustrato da Michele Ainis sul Corriere della Sera, la notizia, clamorosa per la “storia” ma ininfluente per le indagini, ben poteva rimanere segreta. E se ciò non è avvenuto, la responsabilità è di chi doveva custodirla, altroché! Non contento di questo primo rimescolamento delle carte il procuratore di Palermo però ha anche posto un problema, per così dire, “tecnico”.

A dimostrazione della perfetta buona fede di chi indaga egli ha infatti chiamato in causa la tecnologia, che come noto è sempre l’ultima spiaggia di chi vuole confondere le acque. «Tutti sanno, o dovrebbero sapere, che le intercettazioni nel terzo millennio non si fanno più con il poliziotto con le cuffie in testa, ma avvengono in automatico, con una registrazione digitale che poi viene riascoltata in seguito; ergo era impossibile interrompere l’ascolto» ha argomentato il Procuratore di Palermo con l’aria di chi deve spiegare l’ovvio a studenti un po’ indietro con il programma. In questo caso ci permettiamo di correggere l’illustre magistrato. Intanto diciamo che ordinariamente il poliziotto c’è e come. E ha le canoniche cuffie in testa, anche perché spesso le intercettazioni sono coordinate con servizi di pedinamento e osservazione che non si ascoltano un mese dopo. Sostenere il contrario è una enormità.

In ogni caso, visto che oramai si campa di illazioni, ne avanziamo una noi: visto che si intercettava un ex vicepresidente del Csm il poliziotto c’era, e sicuramente ha compreso quale fosse l’interlocutore, e altrettanto sicuramente ne ha informato immediatamente i pm. Ma anche se così non fosse stato, anche se davvero le intercettazioni fossero state effettuate nel modo in cui le racconta il Procuratore, il problema è ancor più grave. Tutto ciò dimostra che le procure intercettano con modalità tali da presupporre, per definizione, che solo a cose fatte sia possibile stabilire se per caso si è registrata una conversazione tra soggetti che godono di una speciale immunità (come un avvocato che parla con il suo cliente, come il Capo dello stato). Questa prassi non consente di rispettare la legge, che impone di interrompere l’intercettazione quando la conversazione è tra il difensore e l’assistito ovvero quando uno dei due interlocutori non è intercettabile.

Dunque è illegittima. E se la Corte di Cassazione la avalla è perché non difende il contenuto precettivo di alcune regole in tema di intercettazioni che sono poste a presidio dell’articolo 15 della Costituzione, perciò siamo al punto in cui siamo. Invocare questa prassi per affermare che non è possibile non intercettare anche se la legge lo vieta, equivale a rivendicare il mancato rispetto della legge e rimarca l’illegittimità della prassi stessa. Questo argomento, contrario a ogni logica, in realtà è perfettamente in linea con la pretesa, anch’essa contraria alla legge, di intercettare qualsiasi conversazione, ascoltarla, dichiarare alla stampa se ci sono elementi penalmente rilevanti o no e infine renderne comunque pubblica l’esistenza – se non i contenuti – senza neppure accollarsene la responsabilità.

Da Palermo è (fuori)uscita la notizia che c’erano delle conversazioni di Napolitano; da Palermo è venuta la conferma ufficiale della notizia assieme alla rivendicazione della ascoltabilità delle conversazioni del presidente; da Palermo si è posto il problema della loro eventuale divulgabilità. Questi sono fatti, non illazioni. E sono tutti fatti che si potevano evitare, dal primo all’ultimo, applicando la legge. È inutile tentare di capovolgere la realtà con acrobazie logiche. Altro che menti raffinatissime: azzeccagarbugli.

* Presidente Unione delle Camere Penali Italiane

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:57