
Alla fine del mese di luglio avevamo commentato la vicenda relativa alle intercettazioni delle conversazioni del capo dello Stato chiedendoci retoricamente “Perché Napolitano?”.
L’interrogativo serviva a dimostrare che questa ultima, dirompente, vicenda aveva certamente a che vedere con la deriva del rispetto del diritto costituzionale alla inviolabilità delle comunicazioni che l’abuso dello strumento delle intercettazioni telefoniche ha prodotto e, forse, ancor di più, con l’utilizzo improprio ed illegittimo che l’occhiuta circolazione degli esiti ormai da anni realizza, ma che certo non si esauriva in quel contesto.
In realtà, ed i fatti degli ultimi giorni hanno confermato quel giudizio, l’attacco al Presidente della Repubblica si inserisce in una distorsione nei rapporti tra i poteri dello Stato ed in una evidente patologia non solo nella esplicazione dei poteri di indagine e nella utilizzazione dei relativi strumenti di acquisizione delle fonti di prova, ma anche del principio stesso della obbligatorietà dell’azione penale. Insomma, la vicenda che coinvolge il presidente Napolitano non è solo sintomatica del livello di barbarie che il nostro sistema giudiziario ha raggiunto attraverso l’impropria commistione tra circuiti investigativi, ambienti giornalistici e smanie di protagonismo politico di molti pm, bensì segna il punto di non ritorno di un condizionamento rivendicato attraverso un controllo non di legalità ma di presunta eticità che impropriamente viene riconosciuto in capo a chi ha il potere di indagare.
Sotto questo ultimo profilo la pretesa di violare la riservatezza delle comunicazioni del Capo dello Stato, chiedendogli il simbolico autodafé della rinuncia al conflitto di attribuzione già proposto e l’assenso alla pubblicazione di conversazioni dichiaratamente prive di rilevanza nella indagine penale - che oggi proviene non solo da ambienti politici intrisi del più rozzo autoritarismo giudiziario, come quelli che fanno capo all’onorevole Di Pietro ed al comico Grillo, ovvero ad organi di stampa che coltivano una visione “manettara” della politica e del vivere civile, ma anche da raffinati giuristi ormai votati al giacobinismo giudiziario - dimostra che le polemiche ormai ventennali sulla invasione di campo sono superate da una concezione dei rapporti civili che pretende la primazia del potere giudiziario, inteso come levatrice della storia, rispetto a qualsiasi altro potere. Come ha scritto un autorevole commentatore “ essa si basa sullo smercio di una concezione “trasparente” della democrazia il cui modello, nella migliore delle ipotesi, è un Grande Fratello con il telecomando in mano alle Procure, ma che nella realtà diventa uno squallido peep-show, perché qui c’è solo un buco nella parete in cui i guardoni vedono un particolare e pensano sia l’insieme”.
Ciò dimostra che il dibattito deve spingersi ben al di là delle pur legittime contese sui limiti delle intercettazioni, sulle aree di immunità, sul rispetto del segreto investigativo e la utilizzazione impropria di atti delle indagini, ma deve coinvolgere una riflessione sulla forma dello stato, sullo statuto della magistratura, sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, sul rafforzamento della funzione giurisdizionale rispetto a quella inquirente. A dimostrazione di tale assunto basterebbe la considerazione che in questo paese – come documenta ampiamente il dibattito che oggi compare sui maggiori quotidiani – si è ormai corrotta l’idea di una giustizia equidistante tra la pretesa punitiva ed il diritto del cittadino e ciò comporta un affidamento fideistico in tutto ciò che di parziale proviene dalle Procure della Repubblica, quasi fosse una verità rivelata; al pari di come si degrada qualsivoglia vincolo legale alla azione investigativa alla stregua di un impaccio alla azione vivificatrice dei controllori ormai non più della legalità bensì della morale.
Ed allora è necessario che tutti coloro che in questi giorni sono intervenuti, magari partendo da posizioni fino a ieri assai concilianti con l’utilizzo politico dell’azione giudiziaria, non si arrestino alla pur doverosa professione di solidarietà al Presidente della Repubblica. In una battaglia in cui la limpida figura di Napolitano non ha certamente nulla da perdere sul piano politico o personale e che ha egli stesso dichiaratamente intrapreso al fine di delimitare poteri e guarentigie della carica e non dell’uomo, si deve aprire una riflessione sulla costituzione materiale del paese in tema di giustizia e sulla necessità di una riforma di quella formale.
Sotto questo profilo i penalisti italiani non possono che accogliere il monito del Capo dello Stato alla “restaurazione” dello Stato ed al rigetto di una “equidistanza”, ovvero di una scriteriata partigianeria, che confonde i termini reali della contesa e sfuma la sua drammatica importanza, ma intendono farlo illuminando anche quegli aspetti che rischiano di rimanere in ombra.
Si dica allora con chiarezza che bisogna riformare la Costituzione: rendendo effettiva la terzietà dei giudici italiani, che proprio sul tema della tutela dell’articolo 15 della Costituzione – così come per il vero su altri primo tra tutti quello della libertà personale – si è dimostrata assai esile se non proprio sottomessa alle richieste dei pm; regolando il principio di obbligatorietà dell’azione penale in maniera tale da evitarne l’utilizzo strumentale, irresponsabile, e spesso partigiano, che ne vien fatto dalle Procure; sdoppiando lo strumento di governo autonomo e liberandolo dal condizionamento delle correnti e dei gruppi organizzati della magistratura che garantiscono l’impunità disciplinare a comportamenti ed esposizioni improprie ed oggettivamente volte al condizionamento degli altri poteri dello stato; garantendo infine la “ventilazione” della magistratura, inquirente e giudicante, con il reclutamento laterale di avvocati, giuristi, accademici, che la allinei a quelle delle maggior democrazie liberali.
Bisogna riformare le leggi ordinarie: irrobustendo il controllo giurisdizionale sulle intercettazioni delle comunicazioni, restituendo loro il carattere di eccezionalità e temporaneità e regolando in maniera efficace il regime di pubblicazione degli atti; prevedendo una verifica giurisdizionale sui tempi di iscrizione nel registro notizie di reato; restaurando residualità ed eccezionalità alla privazione della libertà prima del giudizio definitivo, ormai nuovamente trasformata in arma di pressione supinamente disposta dalla giurisdizione a fronte delle richiesta dell’accusa anche in funzione delle opzioni processuali che la privazione della libertà dell’indagato comporta.
Questi (alcuni e non tutti) sono i terreni in contesa, quelli che connotano il vero volto del sistema giustizia di un paese moderno a confronto con quello odierno che rischia di incarnare una sgangherata forma di “democrazia giudiziaria” che è un vero e proprio ossimoro sul piano della legalità costituzionale. Su questi temi si deve aprire un dibattito costituente, senza aver timore di sottolineare che in una democrazia equilibrata la sovraesposizione della magistratura, ancor di più se quella inquirente, costituisce un vulnus, non un valore.
Solo una riflessione aperta su questi temi può essere il portato virtuoso della attuale situazione a cui “chi tiene alla democrazia” non può rimanere sordo magari rifugiandosi in una “solidarietà di maniera”, priva di gesti significativi e dunque vuota, al Capo dello Stato, che molti protagonisti della politica e delle istituzioni si sono affrettati ad esternare. Abbandonando il consueto riflesso corporativo anche la magistratura deve aprirsi a questa discussione, deve far maturare quelle opinioni critiche che al proprio interno sempre più numerose comprendono che la mutazione del sistema sta producendo effetti perversi, che alcuni degli apprendisti stregoni all’opera da qualche lustro solo ora iniziano a comprendere nella loro gravità.
*Presidente dell’Unione camere penali italiane
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:51