
Se state guidando in macchina e il passeggero è un vostro sincero amico il quale vi avverte che se non vi deciderete a cambiare marcia finirete col fondere il motore, voi che cosa pensate? Dite a voi stessi: a) Questo è un vero rompiscatole, a costo di non dargli ragione sono disposto a bruciare valvole e testata. Oppure, in un moto di opportuna ragionevolezza, potreste pensare: b) Meno male che mi ha avvertito perché ascoltando la radio mi ero distratto.
Ultimo esempio: vi trovate, sempre con il vostro amico, in una conversazione in cui gli mostrate di avere un brutto neo all’angolo inferiore del labbro. Egli, premurosamente e perché vi vuole bene, vi invita ad andare con urgenza da un dermatologo per eliminare ogni dubbio circa la natura benigna o maligna di quella nuova formazione cutanea. Che fate voi? a1) Senza farvene accorgere lasciate lentamente scivolare la mano nella tasca dei pantaloni alla ricerca di migliori, apotropaiche chiavi onde scacciare la malasorte? Oppure, se ragionate nel vostro interesse: b1) Ringraziate l’affettuoso amico che non vi ha nascosto l’eventuale pericolo di avere un tumore epiteliale? Anzi, raccogliete l’invito e gli chiedete, da buon consigliere quale si e’ mostrato, di accompagnarvi da un bravo dottore.
Ho fatto questi esempi per introdurre un ragionamento che riguarda la non sottile differenza esistente tra la critica costruttiva (tipo b,b1), che in un modo o nell’altro sussiste tra intelligenze che collaborano nel reciproco interesse e la cieca condanna (tipo a,a1) condotta – tra insulti e priva di argomentazioni - al solo scopo di distruggere l’odiato “nemico”. Tutto questo perché dalle colonne de L’Opinione (non a caso, delle Libertà), esaminando spesso temi importanti riguardanti i cittadini con i loro problemi, che analizzano la situazione della sicurezza del territorio, del verde che brucia, dei sistemi di trasporto pubblici efficienti, dei piani di sviluppo territoriali da portare a termine, delle carceri che scoppiano, siamo portati a sollecitare chi deve prendere le opportune decisioni ad assumere risolute azioni di governo. Ad impegnarsi attivamente per affrontare i più duri confronti, per procedere sulla linea dei provvedimenti necessari, cercando di far dimenticare, di tanto in tanto, le questioni correntizie a favore dei problemi reali. I solleciti fatti e distribuiti in questo periodo equanimemente da una parte e dall’altra dai giornali, per qualcuno apparentemente acidi, servono ad evitare il sonno della ragione. A eludere il comodo rinvio delle scelte che, se ritenute dal potere apparentemente scomode oggi, perché a prima vista non convenienti ai fini del mantenimento della stabilità e del consenso (personale), rischiano di arrivare, domani, alla formazione di inestricabili nodi aggravati da costi sociali molto più alti. Da ogni parte si dice e si scrive che questa Italia, se va bene, e’ indietro di almeno trent’anni.
Negli anni Sessanta/Settanta ai tempi di Guido Carli, per intenderci, la Lira fu premiata come la più stabile tra le monete dell’anno. Con il Pil di oggi ci accorgiamo che stiamo indietro, che non stiamo al passo con l’economia, con la scuola, con la ricerca scientifica, con la necessaria semplificazione che i mercati e la società in continua trasformazione richiedono anche alla burocrazia. Negli anni sessanta i principali tronchi autostradali furono realizzati in quattro, cinque anni. Oggi questa tempistica è appena sufficiente alla politica, alla burocrazia, agli apparati e alle lobby per decidere il da farsi. Forse anche a causa di un falso modo di intendere la sussidiarietà, essendo ormai lo stato italiano da troppo tempo impantanato tra regioni, province, comunità montane, comuni, municipi, circoscrizioni, tavoli tecnici e tante, tante poltrone...
Scrivere o ricordare questo, per qualcuno, significa essere il “nemico” per definizione: colui il quale politicamente si è definitivamente schierato dall’altra parte, assumendo il ruolo di traditore in quanto ha ricordato a chi guida che è tempo di cambiare marcia se non vuole fondere il motore o peggio ancora andare a sbattere, non arrivando alla meta prescelta. Scrivere o ricordare questo alla politica oggi significa di fatto essersi autoiscritti alla cosiddetta “antipolitica”. A mio parere, termine doppiamente errato e male usato sulla cui spiegazione doverosamente risparmio il lettore. A tal punto la gestione del potere oggi si è così tanto automarginalizzata, avendo perso i riferimenti di fondo, quelli cioè che dovrebbero vedere la Politica svolta come servizio (possibilmente a tempo limitato e non come autocrazia da praticare a tempo indeterminato), da non sapere più riconoscere la necessità dell’apporto critico, del confronto, del contributo di idee che possono aiutarla a riflettere di più su se stessa. La reazione coatta dell’autocrazia (la politica con la “p” minuscola, per intenderci), che fa emergere la paura di perdere il consenso come riflesso condizionato suscitato dalla critica, e’ quella della autodifesa immediata ai fini della propria preservazione. Livida chiusura a riccio, con la conseguente isterica negazione di quella “ragione” che viene esposta invece come analisi e diretta ovviamente al tentativo di risoluzione di problemi. Le cause che generano questa reattività negativa, da riflesso condizionato di pavloviana memoria, a mio parere sono molte. Il motivo principale però dipende dal fatto che oggi i sedicenti partiti non sono più tali. Nel senso che non sono più quei luoghi (fisici e ideali) ove si discuteva veramente di contenuti, ove ci si confrontava con competenza sulle tematiche e sulle eventuali loro possibili soluzioni. Così come pensati dalla Costituzione, essi erano luoghi ove coloro che ricoprivano pro tempore incarichi di governo potevano esporre i loro programmi, ascoltare le osservazioni, prenderne eventualmente atto registrando le posizioni di partenza e poi, democraticamente (cioè per delega) operare le opportune decisioni. Assumendone la conseguente diretta responsabilità.
Oggi, salvo rarissime eccezioni da numeri di dita di una sola mano (gravemente mutilata per effetto di una esplosione di bomba), i partiti si sono trasformati in “convenzioni” puramente nominalistiche, al seguito di un “capo-padrone” in cui si costruiscono cordate di potere, alleanze a sostegno del candidato di turno, nominato in base a convenienze transeunti, supporto tecnico ad predestinato-alla-funzione-gestionale, in servizio permanente effettivo, al portatore del maggior numero di cointeressi. Il tutto senza che, nel necessario esercizio governativo, ci si possa confrontare nella cosiddetta dialettica interna del partito, ove liberamente e senza condizionamenti di sorta le idee possano essere fatte circolare allo scopo di migliorare la stessa attività politica dai gravami dell’errore, dagli eccessi dell’uso del potere, dalla vacuità della propaganda e dell’uso strumentale della demagogia. La catena del potere gestionale all’interno della “convenzione” al seguito di un “capo-padrone” crea un combinato disposto in cui o si è materialmente all’interno della linea di comando o si è “nemici” per definizione. Peggio ancora, non si ha diritto all’esistenza se non quando occorre certificare l’assenso passivo.
Questa, a mio parere, è la ragione principale della morte della politica: avere eliminato il dibattito, la discussione e l’accordo. Ma soprattutto l’aver sacrificato l’adesione ideale e operativa ad un convincente disegno politico di ieri, a favore di un cieco sostegno di una qualsiasi cordata di potere di oggi, partecipata a qualunque costo e condizione. Ai fini della riproposizione coattiva dell’autocrazia come mestiere, attività troppo spesso praticata come sistema per sbarcare il lunario in assenza di una vera professionalità (la qual cosa giustificherebbe i cambi di casacca, di corrente e di schieramento), la critica, la dialettica e il contributo di idee debbono essere censurati. Sono attrezzi pericolosi. Alla faccia del tanto invocato merito anche nella politica. Il potere in quanto tale, quando non è seguito da autentica autorevolezza, non ammette esame, non tollera giudizi, respinge valutazioni ed opinioni certificandole immediatamente come opposizione nemica: oscura manovra di poteri forti, disegno perverso di dominio globale demo/pluto/giudaico/massonico. Una volta, qualcuno si arrabbiava, e chiamandolo “disfattismo”, ti mandava al confino.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:01